da Francesco Mandarini | Feb 21, 2012
Anche in Umbria viene a maturazione un processo iniziato all’inizio degli anni novanta con l’agonia dei partiti di massa. Con percorsi diversi, sia nel centrosinistra sia nel centrodestra, in quella stagione si cominciarono a costruire agglomerati politici il cui meccanismo di funzionamento prevalente era quello della conquista del potere amministrativo. Non più luoghi di discussione e di formazione politica, ma una sorta di uffici di collocamento dove il destino dei singoli prevaleva sempre su quello collettivo. Da qui la vita politica come tutela della carriera personale. L’io che prevale sempre sul noi. Lotte intestine senza esclusione di colpi nelle singole formazioni politiche sono state il filo rosso di questi vent’anni. Privo della trasparenza necessaria nella lotta politica, lo scontro tra i diversi protagonisti è rimasto incomprensibile a un’opinione pubblica sempre più frastornata. Soltanto gli addetti ai lavori capiscono perchè Caio detesta Pinco essendo entrambi nello stesso partito. Non è giusto pensare che tutti quelli che sono impegnati in politica siano privi di passione per l’interesse pubblico. Fortunatamente non è così, ma è indubbio che anche i “migliori” non abbiano saputo vedere il disastro che si andava preparando mantenendo e a volte utilizzando, meccanismi di selezione della classe dirigente incentrati sulle carriere personali. Oggi lo scarto tra il mondo della politica e il comune sentire è arrivato ai massimi storici e non sembra esserci partito in grado di invertire la tendenza al degrado della democrazia organizzata. Con formazioni politiche così mal ridotte, inevitabilmente, le istituzioni pubbliche non possono che soffrirne. Pensate all’attuale parlamento. Nominati dalle oligarchie e a loro rispondenti, i parlamentari passano da un voto di fiducia all’altro null’altro producendo. Interessati a salvaguardare gli interessi delle lobby di riferimento rimangono proni ai voleri del capo bastone. Spesso indifferenti al biasimo dell’opinione pubblica non riescono a rinunciare ai loro privilegi. Non è questione di buona volontà dei singoli. Senza cambiare i meccanismi di selezione dei gruppi dirigenti e senza vincoli formali che impediscano il carrierismo politico, il degrado continuerà e il destino della democrazia italiana sarà segnato. La crisi del centrosinistra in Umbria è descritta nelle pagine dei quotidiani. Negare la crisi sarebbe ridicolo. Che dire? Chi ha più cervello lo adoperi nell’interesse dell’Umbria. Una comunità che non può aspettare che le faide tra i partiti si risolvano a babbo morto. I numeri delle difficoltà economiche della nostra terra sono tanto preoccupanti da richiedere urgentemente uno scatto da parte di tutti. Leggo di organigrammi da realizzare per risolvere il rischio di paralisi dell’assemblea regionale. Prevarrà il carrierismo di qualcuno o sarà la volta buona per ridare forza e vivacità all’azione della massima istituzione democratica dell’Umbria?
da Francesco Mandarini | Feb 14, 2012
Per chi come me ha vissuto tutta la vita “dentro le mura” cittadine l’indagine televisiva che descrive Perugia come una sorta di Chicago anni trenta è stato motivo di grande tristezza e indignazione. Non sono un esperto nè di ordine pubblico nè delle problematiche connesse con lo spaccio di sostanze stupefacenti. Conosco Perugia, ne ho visto il declino. E’ stato un processo iniziato con la crisi del suo sistema produttivo-industriale. Un processo enfatizzato da scelte di governo non sempre consapevoli di quello che stava concretamente succedendo. La straordinaria creatività imprenditoriale degli anni sessanta, settanta e parte di quelli ottanta, trovava nella pubblica amministrazione una sponda che, se non sempre efficientissima, sapeva comunque favorire la crescita economica e sociale della città . Perugia per tanti anni è stato un crocevia d’incontri, di convegni, di un turismo non costruito soltanto su eventi, ma sulla valorizzazione del suo sistema produttivo. Un sistema molto internazionalizzato sia nel comparto alimentare, sia in quello meccanico, sia nel tessile abbigliamento. Ciò comportava la presenza nella comunità cittadina di manager, di tecnici, di uomini e donne che sapevano guardare al mondo vivendo in una città “minore” come Perugia. Alla crisi produttiva si è aggiunta l’uscita dal centro della città di tutti gli headquarters d’imprese, banche, assicurazioni che, aggiunto allo svuotamento d’intere aree dei borghi cittadini, enfatizzarono la rendita immobiliare come motore dell’arricchimento di una parte di popolazione. Una ricchezza che non si è tradotta in alcun visibile beneficio per la comunità . Sarebbe utile un’indagine per calcolare quanti edifici ubicati nell’area allargata del centro sono vuoti, non hanno più una funzione, degradano in attesa che qualcuno si decida a indicarne un destino utile alla città . C’è un vuoto dovuto all’avidità o alla mancanza d’iniziativa del privato. Ma c’è un vuoto dovuto alla pigrizia del settore pubblico incapace di riutilizzare le sue proprietà . Ad esempio, vogliamo parlare dell’ex carcere di Piazza Partigiani o dell’ex Lilli o dell’ex Turreno? Quante volte, giustamente, si è valorizzato il ruolo degli studenti nella vita della città ? Possibile che le classi dirigenti che si sono susseguite nei decenni, non abbiano avuto la lungimiranza di immaginare un campus universitario? Non è stato certo per avversione al costruire. Forse un ipermercato in meno e un campus in più sarebbe stato meglio. Chissà come potrebbe essere la vita cittadina se si fosse concretamente incentivato il ritorno di abitanti nei vecchi borghi cittadini. Le classi dirigenti si giudicano dal come immaginano e costruiscono il futuro della loro comunità . Ai notabili attuali non si chiede di essere all’altezza di coloro che realizzarono la “fontana delle quattro stagioni”, ma forse è tempo di ripensare criticamente a quanto fatto per la città negli ultimi decenni.
da Francesco Mandarini | Feb 7, 2012
Ricominciamo. Per anni abbiamo assistito a governanti che il giovedì affermano una cosa per poi, il venerdì, indignarsi perchè la stampa ha travisato il loro pensiero. Con l’arrivo del governo tecnico abbiamo sperato che la sobrietà riguardasse anche il dichiarare. Nelle prime settimane è sembrato che ministri e sottosegretari usassero con parsimonia l’apparizione televisiva preferendo lavorare in silenzio. Conferenze stampa del governo soltanto per informare i cittadini delle scelte. Poche le esternazioni dei singoli. Poi è successo qualcosa. Come erotizzati dall’acquisita fama, alcuni, non tutti in verità , hanno cominciato ad aprire la bocca e a dargli fiato. Uno sciocchezzaio certo non volgare come quello cui ci aveva abituato il personale politico precedente, ma sciocchezze in libertà e comunque affermazioni non supportate dalla realtà . Veramente il presidente Monti ritiene che la caduta degli investimenti in Italia sia dovuta all’articolo diciotto dello statuto dei lavoratori? Forse l’investitore italiano o straniero considera negativi altri fattori: il peso fiscale, l’alto costo dell’energia, l’inefficienza della struttura pubblica o l’arretratezza di tutte le infrastrutture del terziario tradizionale o di quello innovativo. La ventennale assenza di ogni politica industriale da parte dei governi non ha certo favorito nè gli investimenti privati nè quelli pubblici. C’entra poco l’articolo diciotto. Sostenere il contrario è senza fondamento. Il professore sa che la struttura produttiva del Paese è costituita da piccole imprese che non devono rispettare le norme dello Statuto, eppure gli investimenti sono stati scarsi. Non aiuta l’imprenditore, uno Stato che paga i fornitori a uno, due, tre anni dalla fatturazione. O un sistema bancario che per concedere un mutuo richiede garanzie impossibili da dare. Secondo quale arcano la crescita sarebbe impedita da un lavoro protetto? In Germania si cresce o no? Monti ha affermato che lo Stato ha avuto un atteggiamento “buonista” nei confronti del sociale. Professore, con il massimo rispetto le ricordo che l’Italia è nelle classifiche europee all’ultimo posto in molti settori che riguardano proprio il welfare. Non sarà che il buonismo è stato per decenni riservato a quel dieci per cento della popolazione che possiede la metà della ricchezza nazionale? Anche Lei ha evitato di incidere in quella ricchezza privata che, come sa, non produce alcun vantaggio per la collettività . La continuità da Lei rivendicata con il governo precedente è legittimata dalle sue concrete scelte. Per favore, eviti al suo governo di riprodurre lo stesso meccanismo di occupazione degli spazzi televisivi, non sarebbe elegante. Almeno in questo sia un innovatore.
da Francesco Mandarini | Gen 31, 2012
Autorità , borghesia e popolo, alla Sala dei Notari di Perugia, hanno reso omaggio a uno dei figli migliori che l’Umbria ha espresso dopo la fondazione della Repubblica. La morte di Leonardo Servadio ha sollecitato ricordi e apprezzamenti diffusi di là dalle collocazioni politiche o sociali. E’ giusto così. Leonardo Servadio apparteneva a quella straordinaria generazione di uomini e donne che, riscattata l’Italia dalla vergogna fascista, hanno costruito la democrazia repubblicana; inventato un modello di sviluppo capace di emancipare una regione povera e marginale com’era l’Umbria del dopoguerra. Le masse contadine espulse dalla terra trovarono in imprenditori capaci e in una pubblica amministrazione sensibile, le occasioni di lavoro adatte a una vita più civile. Le dichiarazioni ufficiali ricordano i fatti salienti della storia imprenditoriale di Servadio. Nessuno dei dichiaranti ha, però, colto un dato peculiare di questa vicenda. L’inventore della “Elle Esse” aveva ben chiaro il ruolo che anche il più umile lavoratore delle sue fabbriche svolgeva per assicurare il successo. In tutti gli anni sessanta e settanta le condizioni delle lavoratrici erano considerate eccellenti. I rapporti con il sindacato operaio si basavano sul reciproco ascolto: il rispetto del lavoro era un fattore decisivo nella conquista di mercati. La produttività era assicurata dagli investimenti in innovazione di prodotto e non dal semplice sfruttamento intensivo del lavoro. Il “miracolo” compiuto fu possibile perchè Servadio seppe, nel rispetto dei ruoli, valorizzare tutti i protagonisti del processo produttivo. La presidente Marini ha ricordato come Servadio fino all’ultimo non ha smesso di essere stimolo nei confronti delle istituzioni con progetti di grande spessore culturale. Vero, gentile presidente, ma, purtroppo questi stimoli non hanno trovato concretizzazioni. Perchè? Servadio non aveva mai avuto ne cercato santi in paradiso. Così i santi in paradiso hanno continuato imperterriti ad apprezzare gli stimoli e archiviarli in un silenzio assordante e a volte arrogante. Anche questa particolare storia ripresenta il problema della qualità delle classi dirigenti. Abbiamo un problema in Umbria di questa natura. Non siamo soli evidentemente. La globalizzazione ha riguardato anche il dato della mediocrità delle leadership. E’ questo un problema che riguarda tutto l’occidente, la crisi economica richiederebbe grandi protagonisti in tutti i settori della vita sociale. Purtroppo dobbiamo prendere atto che le crème de le crème, in questi giorni presente a Davos, hanno idee irrancidite e gli innovatori alla Servadio vanno ricercati altrove. Purtroppo l’altrove non è facile da trovare nemmeno in Umbria.
da Francesco Mandarini | Gen 22, 2012
Riuscirà il governo Monti a sopravvivere alla crescente tensione sociale dovuta all’aggravamento delle condizioni materiali del popolo? Il governo potrà incassare il voto positivo al decreto sulle liberalizzazioni con un Parlamento in cui le libere professioni, toccate dal provvedimento suddetto, sono rappresentate da trecentoquarantuno parlamentari? Può vivere una democrazia in cui i partiti politici hanno perso la quasi totalità della fiducia dell’elettorato e non sembrano in grado di invertire la tendenza al degrado? Siamo di fronte al paradosso di un governo che, a differenza di quello precedente, trova consenso e rispetto all’estero. Ancora oggi i sondaggi sono favorevoli per la compagine governativa ma Monti, sottoposto alle lobby che condizionano i partiti, non sembra in grado di individuare una strada diversa da quella che non ha funzionato nè in Grecia nè in Spagna. Aumentare il numero dei taxi o quello delle farmacie può anche essere buona cosa, ma se le aspirine, ad esempio, continueranno a costare dieci volte quello che costano a Londra il consumatore non trarrà grandi benefici dall’aumento dei punti vendita. Forse di fronte all’impoverimento progressivo delle basi produttive del Paese ci sarebbe stato bisogno d’interventi più radicali in direzione di un nuovo sviluppo. Che un giovane per aprire un’attività economica non sia sottoposto più a vincoli burocratici arcaici e a oneri insostenibili sembrerebbe cosa giusta. Ma se la struttura pubblica continua a non pagare i fornitori (ammontano a settanta i miliardi di euro i crediti che le piccole imprese hanno nei confronti di Comuni, Regioni, Stato) difficilmente si potrà sperare nella crescita. Senza sviluppo le entrate fiscali diminuiscono e il debito pubblico aumenta. Si può essere d’accordo o no con la liberalizzazione degli orari dei negozi, ma se i consumi non riprendono, i punti vendita rimarranno aperti più a lungo ma saranno sempre vuoti. Che tutto ciò che è pubblico debba essere privatizzato, non è un obbligo dovuto a leggi naturali, ma è frutto di una scelta ideologica che, in assenza di una qualche ideale di sinistra, è divenuta il verbo divino. Che gli utenti abbiano tratto giovamento dalle privatizzazioni all’italiana è difficile dimostrarlo. Ad esempio la sanità ha certamente eccellenze sia nel settore pubblico sia in quello privato, ma i costi sono molto più alti in quello privato. Basta confrontare i bilanci della sanità nel Lazio (in maggioranza privatizzata) con quelli della nostra regione dove il privato è marginale. Certo anche la sanità pubblica dovrebbe migliorare, ma senza risorse e facendo conto soltanto sui ticket il deterioramento è certo. Invece anche un buon welfare potrebbe aiutare un nuovo sviluppo, basterebbe uscire dalle ideologie ottocentesche.