da Francesco Mandarini | Set 22, 2010
Doveva nascere un Movimento con la maiuscola, poi viste le reazioni, si è preferito la minuscola per connotare il documento che certifica la ridiscesa in campo di Walter Veltroni.
Lungi da me ogni tentativo di criminalizzare una minoranza politica. Arcaico come sono ritengo ancora che il dissenso come il dubbio siano il sale della democrazia. Il problema si pone quando si vuol vendere panna irrancidita per panna fresca. Le perplessità nascono quando si continua a ragionare senza alcun bilancio di quello che una linea politica ha prodotto nel concreto operare di una formazione politica nata per cambiare il mondo conosciuto. Rilanciare lo spirito maggioritario della fondazione del PD, lo spirito del Lingotto si dice, prescinde completamente da un’analisi dello stato della democrazia italiana, oggi in questa fine estate. Non tiene conto del fatto che i due partiti maggiori (PD e PDL) in due anni, secondo i sondaggi citati da Veltroni, passano dal 70% dei voti ottenuti nelle elezioni del 2008, al 55% di oggi. Veltroni sostiene che Lui segretario il PD raggiunse quasi il 34% ed oggi Bersani otterrebbe il 25%. Forse sarebbe utile ricordare che quel quasi 34% contiene la cannibalizzazione di tutte le forze di sinistra che, grazie al corriamo da soli del PD veltroniano, non sono più rappresentate. Si potrebbe sostenere con qualche ragione che non è un dramma se Pecoraro Scanio o Diliberto non siano stati eletti, ma la questione è che nessuno rappresenta più, nella massima assemblea elettiva forze, culture e sensibilità che sono state importanti nella democrazia italiana. L’aumento esponenziale dell’astensione al voto dimostra che non esiste più il voto utile o il cemento dell’antiberlusconismo che porta voti al partito più grande. Il turarsi il naso e votare non vanno più di moda. Nel documento dei 75 veltroniani non si considera per nulla l’evidente crisi del bipolarismo maggioritario all’italiana. Unica bibbia del centrosinistra come del centrodestra il maggioritario plebiscitario sta facendo acqua da tutte le parti, sia a destra che nel centrosinistra. Forse non è garbato chiedere un’analisi critica di come per quasi venti anni le forze del centrosinistra hanno operato per riformare il sistema politico. Ma in mancanza di qualsiasi capacità di analisi di coloro che ci chiedono il voto, sollecitare una riflessione sull’accaduto sembrerebbe il minimo.
Il berlusconismo non è una maledizione divina. E’ il risultato delle scelte o delle non scelte delle forze politiche in campo a destra ma anche nel centrosinistra. Forze che si sono fatte trascinare dai miti della seconda repubblica. Liberismo, giustizialismo, plebiscitarismo. La governabilità a discapito di ogni valore di rappresentanza politica o sociale non è il frutto marcio della destra, ma il risultato dell’ideologia dominante anche nel centrosinistra. La grande riforma coma panacea del Paese è il filo nero che, partendo dal craxismo, arriva a Berlusconi, trascinando anche pezzi decisivi del centro-sinistra. Il Parlamento è stato svuotato di ogni potere per volontà del Capo, ma tutte le assemblee, dei comuni, delle province e delle regioni hanno perso ogni possibilità di svolgere un ruolo dopo che leggi del centrosinistra hanno consegnato tutto il potere al presidente o al sindaco eletto dal popolo.
Che dire poi delle leggi elettorali vigenti anche in regioni governate dal centrosinistra? Lasciamo perdere. Sarà anche in difficoltà il cavaliere, ma i competitor non sembrano in grande forma. Perchè continua a dominare la scena il cavaliere di Arcore? Dopo l’incapacità di governo dimostrata dalla destra ci sarebbe di che fare per le forze di opposizione. Un Paese allo sbando ha bisogno di idee e di valori che rimettano a leva le energie migliori. Invece il maggior partito di opposizione rischia l’implosione. Ricomincia con gli stessi partecipanti l’eterno gioco dell’oca. Un pregevole intellettuale, Michele Ainis, ha scritto un bel pezzo sulla Stampa di Torino intitolato “La repubblica degli ex”. Ricorda le giravolte, i cambi di casacca e di ruoli dei diversi protagonisti della vicenda politica italiana degli ultimi decenni. L’articolo avrebbe bisogno di un’integrazione che a me viene spontanea. Nel gennaio del 2000 si svolse il congresso dei DS, Segretario Walter Veltroni. Lo slogan congressuale era “I care”. Fu considerato un omaggio alla democrazia americana dei kennediani italiani. Finalmente dopo la lunga storia segnata dalle elaborazioni gramsciane, si poteva anche a sinistra entusiasmarsi per l’America. Per chi conosce la democrazia che ha prodotto Obama, ma anche Reagan, la scelta del congresso diessino suscitò qualche perplessità . Non per settarismo ma perchè era evidente la mistificazione. L’inganno consiste nel fatto che se si vuol fare come in America bisogna avere una certa coerenza altrimenti si rischia la truffa ideologica. Nel mondo anglosassone vige una regola non scritta. La regola prevede che un leader sconfitto o che ha terminato un mandato di governo, cessi di essere protagonista della vita politica. Le ridiscese in campo non esistono. Margaret Thatcher è stata la principale protagonista della rivoluzione conservatrice degli anni ’70 e ’80. Ha governato la Gran Bretagna per 18 anni poi, per decisione del partito, fu sostituita da Major.
La signora lasciò con auto privata Downing Street e si ritirò a vita privata. In questi anni non un qualsiasi tentativo di intervenire nella vita politica. Nessuno sentirà più parlare di Gordon Brown come dirigente politico. Tony Blair dominatore del New-Labour, nelle scorse settimane ha detto di non escludere un suo rientro in politica: è stato sommerso da urla così diffuse nel Paese che sembra abbia cambiato idea. L’avversione è stata così palese e rumorosa che Tony ha scelto di non presentare più il suo libro di memorie. Insomma chi perde va a casa e cambia mestiere. In Italia invece si preferisce il gioco dell’oca. Si cambiano caselle, non si fa mai un bilancio del lavoro svolto, e si aspetta di ridiscendere in campo. Dopo aver impedito ai giovani di crescere come dirigenti politici, i nostri dicono che non possono mettersi da parte. Mancano le forze giovani. Giocano loro, lo fanno per generosità .
da Francesco Mandarini | Set 13, 2010
Un vecchio industriale perugino mi ha offerto un aperitivo. Voleva sfogarsi per la situazione del Paese. Angosciato per le prospettive mi ha detto con tristezza: ” In ogni classifica internazionale l’Italia è sempre all’ultimo posto. E’ un’immagine inconcepibile per un Paese che è stato nei decenni passati in tanti campi leader indiscusso. Sono vecchio e non ho preoccupazioni personali. Ma i miei figli? I miei nipoti in quale società vivranno? Berlusconi, non ha fatto nulla per affrontare la crisi ed è quello che è, ma dall’altra parte c’è il nulla, il vuoto assoluto. Meglio che rimanga il Cavaliere perchè è meglio del nulla”. Conoscendo le qualità democratiche e il valore imprenditoriale dell’interlocutore, non potevo far finta di non capire. Balbettando qualche banale difesa del centrosinistra ho cercato di rincuorarlo, ma gli argomenti erano fragili, poco convincenti. Non me la sono cavata bene, ma qualche motivo a giustificazione della mia insufficienza credo di averlo. Il quadro politico del dopo agosto ha qualcosa di surreale. Il centrodestra è messo malissimo. Grazie alla legge elettorale truffaldina Berlusconi aveva una maggioranza parlamentare schiacciante. In due anni questa maggioranza si è spappolata per l’incapacità del leader di affrontare altri problemi che non siano i suoi processi. Un Paese bloccato prima dalla discussione sulle intercettazioni, poi dal processo breve, poi dalla legge sul legittimo impedimento. Nel frattempo non c’è settore della società che non è in apnea per la mancanza di provvedimenti governativi adeguati alla crisi. O meglio gli unici interventi sono stati quelli del blocco dei salari del pubblico impiego e dei tagli a scuola, trasporti, sanità pubblica. Un tempo si sarebbe detto che il centrosinistra avrebbe una prateria per affermare una nuova idea dello sviluppo del Paese. Invece ogni pezzo del centro sinistra appare rinchiuso nel proprio orto o orticello. C’è qualcuno che può legittimamente sostenere che il gruppo dirigente del PD ha la stessa idea su una singola questione? Che la legge elettorale sia rivoltante è certo come è certo che nel PD non si è avuto ancora il tempo, in quattro anni, di presentare una proposta alternativa perchè i vari inossidabili dirigenti del partito a vocazione maggioritaria non si mettono d’accordo. Soltanto il presidente della regione Toscana ha il coraggio di fare autocritica impegnandosi a modificare la legge elettorale toscana superando liste bloccate, listini e abnormi premi di maggioranza. La Fiat vuole unilateralmente modificare la contrattazione? Nel PD i tifosi di Marchionne impongono il silenzio stampa. Soltanto balbettii che non convincono nè gli operai nè i fautori dell’affermarsi del modo di produzione asiatico anche in Italia.
Di fronte alle esternazioni estere di Berlusconi si usa lo stesso ritornello. Che brutta figura per l’Italia! Argomento serio ma insufficiente a far capire al popolo il rischio che sta correndo la democrazia italiana. Trovo scontato l’attacco di Berlusconi alla magistratura. Illegittimo ma coerente con la visione padronale del nostro. Ma è più allarmante la tenacia con cui il capo del governo, in ogni sede, prospetta un modello di democrazia che ricorda quello delle democrazie popolari simil Bulgaria o Romania dei tempi di Ceausescu. Non è casuale che Berlusconi abbia dichiarato che Putin sia “un dono di dio” per la Russia. Il modello di governo imposto dall’ex uomo del Kgb ai popoli russi è lo stesso che ha in testa l’uomo di Arcore. Parlamento senza alcun potere, magistratura sottoposta al potere politico, sistema informativo silenziato. Berlusconi è veramente convinto che tutto ciò vada bene anche in Italia. Ha iniziato imponendo un parlamento di nominati, proseguendo con gli attacchi al potere giudiziario e mettendo i vari Minzolini nei gangli del sistema della comunicazione. I fautori delle riforme bipartisan hanno consapevolezza di ciò che ha in testa la destra populista?
Forse è necessario che il partito di opposizione più importante faccia il suo dovere ad iniziare a darsi un’idea di Paese alternativa a quella della destra. Invece si ragiona soltanto in termini di sigle da aggregare o rifiutare nello schieramento alternativo al berlusconismo. Una parte del PD vorrebbe imporre una specie di diga a tutto ciò che appare di sinistra. Si continua con la solita banalità per cui le elezioni si vincono al centro e si considerano ininfluenti i milioni di elettori che continuano a considerare la sinistra come un’opzione legittima e importante.
Domanda: c’è qualcuno nel PD che ha analizzato e studiato i flussi elettorali e la motivazione dell’esplodere delle astensioni? Ad ascoltarli, studiare non sembra più necessario nemmeno ai politici. Se lo facessero scoprirebbero cose interessanti. Ad esempio capirebbero che il giudizio terrificante sulla casta non riguarda soltanto gli uomini e le donne del centrodestra, ma coinvolge gran parte del ceto politico e amministrativo in campo. Il sono tutti uguali ha fatto strada nella testa della gente perchè le ottime persone che si occupano di politica, e ce ne sono molte, non riescono a svolgere il loro ruolo in un mondo in cui conta più l’appoggio del feudatario che le idee e il lavoro di cui si è portatori. Adeguarsi è troppo spesso la sola strada aperta per continuare nel lavoro politico-amministrativo. Sommessamente un consiglio agli addetti ai lavori. Le elezioni sono state spostate almeno alla prossima primavera. C’è il tempo per costruire una piattaforma politica alternativa al berlusconismo. Bisogna farlo in un rapporto stretto con il popolo, con le culture, le intelligenze e la creatività di cui è ancora ricca la democrazia italiana. Nonostante le brutture di questi anni ci sono ancora uomini e donne che hanno la cultura, la passione e l’intelligenza per bloccare la decadenza del Paese. Berlusconi sostiene di essere stato eletto dalla maggioranza del popolo. Non è vero. La maggioranza del popolo non ha votato per il presidente del Milan e non saranno Ibra o Robinho a garantire la vittoria nella futura tenzone.
da Francesco Mandarini | Set 3, 2010
Il presidente della regione Toscana ha annunciato che la legge elettorale che regolamenta le elezioni in quella regione, sarà modificata radicalmente. Perchè? Semplice. La famosa legge “porcellum” voluta nel 2006 da Berlusconi e dalla destra, è figlia legittima della legge toscana. Lo scandalo provocato in questi anni dalla pessima legge è dovuto, come è noto, ai meccanismi che provocano l’espropriazione del diritto dell’elettore a scegliere i propri rappresentanti in parlamento e, attraverso il premio di maggioranza, a rendere la volontà popolare falsificata. Per rendere lo scandalo accettabile è tempo che anche le leggi elettorali di quella stagione deleteria vengano rese coerenti con il dettato costituzionale. Listini, liste bloccate e premi di maggioranza non lo sono. La cosa riguarda la Toscana, ma anche la mia amata Umbria. Soltanto pochi mesi prima le ultime elezioni il consiglio regionale con voto bipartisan votò una legge che prevede listino e premio di maggioranza. Scandalo diffuso anche a queste latitudini. Speriamo che anche Catiuscia Marini annunci le modifiche alla legge elettorale vigente in Umbria che, come è noto, se ha salvaguardato un pezzo di casta non è apprezzata da molti in nome della democrazia costituzionale.
da Francesco Mandarini | Lug 26, 2010
Nella vita, come in politica si possono subire sconfitte, arretramenti nella possibilità di ottenere ciò che si vorrebbe. E’ sempre successo e sempre succederà . Ciò che risulta intollerabile è quando il vincitore pro tempore pretende di convincerti che il suo successo sia cosa buona anche per te che hai perso o che la tua sconfitta non sia dovuta a rapporti di forza squilibrati, ma alla tua incapacità di capire la modernità . Ad esempio la scelta della Fiat di produrre i nuovi modelli di auto in Serbia è motivata dal dottor Marchionne con la scarsa serietà dei sindacati italiani. Anche se sulla serietà di alcuni sindacati si può discutere, il dottor Marchionne ha detto una falsità rispetto ai motivi della scelta. Infatti, il management serbo, ovviamente soddisfatto, ha dichiarato: ” la decisione di Fiat di produrre qui questi 2 nuovi modelli conferma che vengono applicati tutti gli accordi stipulati con i partner italiani”. A quando risalgono gli accordi? Al dicembre 2009. Non è serio mistificare quando di mezzo c’è la vita di intere comunità come quelle che ruotano attorno a Mirafiori. Galattica, poi, l’affermazione berlusconiana per cui le imprese hanno il diritto di localizzarsi dove vogliono, basta che non lo facciano a discapito dell’Italia. Appare come un pensiero erudito e profondo espresso da un turista che, non avendo alcun potere d’intervento, inneggia alla libertà di mercato contro il dirigismo comunista.
Potete immaginare quello che sarebbe successo in Francia se la Citroen o la Renault ipotizzassero, dopo tutti i soldi presi dallo Stato francese, una diversa location per i propri stabilimenti? Ma come è noto all’Eliseo regna un vetero comunista.
E’ la serietà che manca alla politica italiana e in genere ad una parte significativa della classe dirigente del Paese. Non sembra che si abbia la consapevolezza di quanti rischi stiamo correndo se non si riesce ad invertire la tendenza al deterioramento economico, sociale, morale della nostra terra. Vale anche per l’Umbria questa sorta di imbarbarimento del confronto politico? Negarlo sarebbe difficile. Martedì c’è stata la cerimonia per i quaranta anni di istituzione della regione. Evento che voleva significare anche il tentativo di un bilancio storico e, al di là della legittima commozione di tanti, poteva rappresentare uno stimolo a rendere più civile il confronto politico. Non è andata così.
Venerdì si è svolto un consiglio regionale con all’ordine del giorno la situazione dell’Ente dopo i provvedimenti governativi di taglio dei trasferimenti finanziari. Il centrodestra non ha voluto partecipare ed a preferito svolgere una conferenza stampa per dire ciò che pensa della condizione economica e finanziaria dell’istituto che dovrebbe contribuire a far funzionare pur nel ruolo di opposizione.
Non spetta a me esprimere valutazioni rispetto al modo e ai tempi decisi per la discussione. Rimango però colpito da alcune affermazioni rispetto ai motivi delle difficoltà che le comunità amministrate hanno da affrontare. Un consigliere leghista ha sostenuto che tutto dipende dal disastro provocato, nei quaranta anni trascorsi, dalle amministrazioni di centrosinistra. Scompare in questa visione apocalittica ogni riferimento ai processi indotti dalle ripetute crisi degli assetti mondiali, dalla marginalità dell’Umbria rispetto alle scelte dei governi nazionali. Ma principalmente non si riconosce la qualità dell’avanzamento dell’Umbria nella sua struttura economico-sociale e culturale. Portare l’Alta Valle del Tevere come esempio di arretratezza economica è una sciocchezza che offende una classe dirigente che ha saputo, nel dopoguerra, costruire un assetto sociale molto avanzato e moderno. Gentile novello consigliere, se ci fosse stato a guidare la regione il prode Calderoli o se il raffinato figlio di Bossi fosse stato sindaco di Città di Castello, oggi non avremmo alcun problema?
Il settarismo, di ogni colore, rende ciechi e la cecità non aiuta a capire ciò che è necessario mettere in campo per affrontare una crisi che ha origini complesse che richiede una sorta di rifondazione dello Stato nelle sue articolazioni centrali e territoriali. Anche per l’Umbria si pone il problema di come ripensarsi e non solo per affrontare i pesanti tagli imposti da Tremonti ai bilanci regionali e comunali.
Riformare, riformar bisogna se si vuole salvaguardare una tenuta sociale che è anche dovuta ad una spesa pubblica molto consistente che non sarà possibile preservare, ma che in un processo di profonda riconversione può continuare a produrre risultati adeguati alla bisogna.
Il centrodestra umbro non può nascondersi il fatto che tutte le regioni e l’ANCI hanno dichiarato il proprio disaccordo per la manovra finanziaria del governo centrale. Colpevolizzare la presidente Marini non sembrerebbe cosa utilissima per risolvere i problemi di bilancio dovuti a decisioni prese a Roma.
Non si può non considerare che, per esempio, servizi primari come i trasporti o l’edilizia popolare non hanno più finanziamento e che la scelta è la soppressione dell’attività o l’introduzione di nuovi balzelli.
Il centrosinistra non può non considerare che la protesta delle regioni e dei comuni assumerà rilievo e sarà compresa dalla cittadinanza, se la lotta agli sprechi sarà una priorità nell’attività amministrativa. Non sarà facile e sarebbe auspicabile che il consiglio regionale tornasse ad essere un centro di discussione e di democrazia formale che ha come zenit l’interesse generale.
Continuare a non vedere che il rischio che stiamo correndo è quello del consolidamento di un muro di cemento armato che separa la politica e la sua classe dirigente dalla popolazione è cosa grave a cui bisogna porre rimedio. Ciò spetta a tutti coloro che continuano a scommettere sulla buona politica come medicina essenziale per curare il Paese.
da Francesco Mandarini | Lug 20, 2010
Quarant’anni da quel 20 luglio del 1970 quando si riunirono i trenta consiglieri regionali che avrebbero iniziato la costruzione dell’istituto regionale, sono una ricorrenza che sollecita qualche riflessione politica. Saranno gli storici, con maggior dottrina, a precisare il significato e il ruolo che l’ente regione ha avuto nella crescita della nostra comunità ma la storia è anche costruita attraverso le esperienze delle persone. Ecco la mia. Quel 20 luglio ero tra quei trenta eletti all’assemblea regionale e, come consigliere giovane, fui segretario nella prima seduta.
Ho nitido il ricordo di una Sala dei Notari gremita di popolo e di una classe dirigente che esprimeva collettivamente una forte tensione civile. Colma di grandi speranze la Sala dei Notari esprimeva una composta allegria. Non c’era alcun burocratismo. Piuttosto si svolse una sorta di rito liberatorio pieno di fiducia. La cerimonia aveva come protagonisti coloro che già rappresentavano i legittimi interessi di forze sociali e dell’Umbria delle cento città , i rappresentanti del governo centrale e i sindaci delle città . I sindaci. A quei tempi non erano eletti direttamente ma furono capaci, negli anni delle grandi emigrazioni degli umbri nel mondo, a organizzare una lunga lotta di resistenza al degrado delle città svuotate dalle forze migliori. Chi ha una certa età ricorda con angoscia la povertà di tante città umbre fino agli anni sessanta. Oggi Spoleto, Gubbio o i comuni del Trasimeno sono gioielli di straordinaria bellezza. E’ l’intera Umbria che viene vissuta dai visitatori come terra di civiltà , nonostante che sbreghi e brutture non manchino. Il vivere in Umbria può essere attraente. Questo processo di emancipazione dalla miseria non è stato un regalo della provvidenza. Decisivo è stato il lavoro dei sindaci di quegli anni. Espressione diretta del mondo contadino, delle fabbriche, delle professioni o dell’intellettualità , i sindaci furono veri capi popolo capaci di organizzare nella sobrietà e nel rigore le forze per costruire un nuovo sviluppo. La coreografia della Sala Notari era semplice: non esprimeva altro che la soddisfazione per il raggiungimento di un obbiettivo voluto dal popolo. Negli anni cinquanta e sessanta, in Umbria più che da altre parti, tra gli slogan delle grandi manifestazioni popolari, ce ne era uno che rivendicava l’istituzione della regione. Come esigenza di autogoverno come metodo di costruzione della società post bellica la regione era considerato il necessario strumento per superare l’indifferenza dei governi centrali verso una terra considerata marginale.
Le regioni furono istituite con venti anni di ritardo. Grazie alla straordinaria stagione riformatrice frutto delle lotte degli anni sessanta, alla fine la Costituzione fu applicata. Altro che il chiacchiericcio di questi anni sulle riforme istituzionali. L’elenco delle riforme prodotte negli anni sessanta sarebbe lunghissimo. Basta ricordare l’inizio della costruzione del welfare, la riforma sanitaria, lo statuto dei diritti dei lavoratori, il diritto ad una formazione scolastica di massa.
Una stagione riformatrice che i novelli riformisti dovrebbero studiare con attenzione per capire ciò che è necessario fare per portare fuori dal pantano l’Italia.
Nessuno dei partiti componenti la prima assemblea regionale sono presenti nell’attuale fase politica. O meglio sussistono alcune sigle che richiamano i vecchi partiti. Ma sono sigle che non esprimono significativi consensi elettorali e comunque sono altra cosa rispetto a quelli passati.
La cerimonia per l’anniversario dei quaranta anni di vita regionale si svolgerà alla Sala dei Notari martedì prossimo e sarà interessante ascoltare gli interventi. Tra i relatori è stato scelto, giustamente, Vinicio Baldelli. Sono molti anni che non ci vediamo eppure in me permane un sentimento di riconoscenza nei confronti di questo gentiluomo. Democristiano integerrimo era vice presidente della prima commissione, quella per il bilancio e gli affari istituzionali. Come assessore al bilancio dovevo relazionare e, spesso, entrare in discussione con Baldelli. In sincerità all’inizio del mio mandato non riuscivo sempre a reggere alle critiche della minoranza. Una questione di conoscenza dovuta all’impreparazione del sottoscritto, ma anche a difficoltà oggettive del quadro finanziario dell’ente regione. Sarebbe stato nelle cose che l’opposizione approfittasse dei limiti di un giovane in formazione. Non fu così. Prevalse in Baldelli l’interesse generale. Così, con cautela e tranquillità , il democristiano cercò di insegnare al giovane assessore comunista i meccanismi del bilancio. Ciò che contava per Baldelli era la qualità dell’istituzione. L’interesse non fu quello di mettere in difficoltà l’assessore, ma quello di contribuire a far funzionare meglio l’ente regione. L’assessore doveva conoscere nell’interesse di tutti come gestire un bilancio pubblico. Sembra una favoletta eppure in quei tempi di aspre tensioni tra i partiti, il dovere che i dirigenti di partito insegnavano a tutti coloro che gestivano la cosa pubblica era quello di guardare all’interesse generale e non al tornaconto di parte.
A guardare al pantano della politica attuale un battito d’ali di nostalgia è legittimo, ma lo superiamo subito augurando ai nuovi consiglieri ogni successo nel costruire la regione federale. Qualche dubbio al riguardo è legittimo considerando la storia del regionalismo. L’istituzione delle regioni fu una riforma mancata. Una delle tante, ma la più grave nelle sue conseguenze. Si mancò l’occasione del mutamento radicale nel funzionamento dello Stato e presto il morto si riprese il vivo, il centralismo tornò a trionfare e le regioni si trasformarono (non tutte in verità ) in enti burocratici piuttosto che in strumenti di partecipazione e d’innovazione democratica. Difficile pensare che il federalismo immaginato dai leghisti possa costituire una speranza di riforma democratica dello Stato. L’ideologia dell’egoismo proprietario o di area geografica, non sono viatici seducenti per coloro che amano la democrazia organizzata. Possono provocare catastrofi.