Poveri noi

Annuncio di giovedì scorso: Io vado avanti con il popolo che è qui e con loro discuterò tutte le scelte che faremo. Eccone un altro che si appella al popolo. Non è il solito messaggio televisivo dell’uomo di Arcore. Questa volta la chiamata populista viene da un democratico del PD. Poveri noi.

Infatti, il popolo chiamato in causa è quello di Napoli. E’ un parlamentare europeo, Andrea Cozzolino che vuole la scesa in campo dei suoi concittadini per confermare la sua, di Cozzolino, vittoria alle primarie svoltesi domenica scorsa per la scelta del candidato sindaco di Napoli. L’episodio è utile per capire quanto il berlusconismo populista abbia impregnato una parte consistente del ceto politico di destra, di centro e di centrosinistra. Che è successo alle primarie di Napoli? Con il 37% è arrivato primo l’eurodeputato ma a detta di alcuni, la vittoria era stata possibile attraverso brogli. Secondo la stampa le irregolarità  erano riscontrate anche dai consiglieri regionali Corrado Gabriele e Angela Cortese, vicini ad Oddati, che in modo ancora più esplicito dichiarano: «Questa mattina abbiamo avuto modo di verificare che in alcuni seggi a Scampia, a Barra e nel quartiere di San Carlo all’Arena personaggi estranei al Pd hanno condizionato il voto portando a votare persone in cambio di banconote». Di fronte a ricorsi vari il partito di Bersani ha chiesto al Cozzolino un gesto di generosità  facendo un passo indietro per favorire un candidato diverso. Uno si domanda: ma il PD non riesce proprio a trovare la strada per uscire dal pantano di Napoli e della Campania? Al di là  delle vicende giudiziarie, molte ancora in itinere, da come sono andate le cose negli ultimi anni a Napoli ha fallito un’intera classe dirigente politica di cui ha fatto parte anche il suddetto Cozzolino. Malamente persa l’amministrazione regionale e quelle provinciali, ci si appresta a perdere anche quella comunale? Un partito con le ambizioni del PD non può tornare a vincere nè a Napoli nè in Italia spendendo le stesse facce che hanno portato a sconfitte storiche. La mondezza di Napoli è stata una delle cause della straordinaria vittoria di Berlusconi alle elezioni del 2008. Se lo sono dimenticato. Così all’apice della crisi del governo della destra con Berlusconi chiuso in un fortino difeso ormai soltanto dai suoi dipendenti, siano essi deputati, ministri o senatori, l’atteggiamento non cambia. Con aggressività  ripetono il ritornello della congiura della magistratura rossa contro l’eletto dal popolo. Incapace di svolgere il ruolo di capo del governo, abbandonato dalla Confindustria,  Berlusconi deve prendere atto che anche la gerarchia vaticana non poteva andare avanti con le indulgenze: l’articolato e ricco mondo cattolico non le sopporta più. Berlusconi in evidente affanno trova come unica sponda le difficoltà  del partito di Bersani e le divisioni del centrosinistra. Il popolo mi ha eletto, nessuno può toccarmi dice il presidente.

Se il Cozzolino si appella al popolo contro il suo partito, perchè non lo dovrebbe fare Berlusconi contro la magistratura politicizzata?

Certo le questioni sono radicalmente diverse. Quella di Napoli è relativa a questione interna al PD mentre la problematica che riguarda il Sultano sta infangando l’Italia in tutto il mondo. Oltre che disarticolare tutte le istituzioni democratiche la linea di attacco della destra porta al collasso della democrazia italiana.

L’ideologia dell’eletto dal popolo e per questo intoccabile, è una scuola di pensiero che ha permeato per 20 anni tutta la politica italiana costruendo nella testa di molta gente un modello di democrazia arcaico e pre Montesquieu. Anche il Re di Francia doveva prendere atto dell’autonomia della magistratura. Un regime si può definire democratico esclusivamente se potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario sono autonomi. Ad oggi abbiamo un parlamento di nominati privo di qualsiasi autonomia, un governo che agisce soltanto con decreti legge e una magistratura sottoposta all’attacco della maggioranza del parlamento e del governo. Non siamo messi benissimo in materia di democrazia.Con rapidità , se all’indignazione vogliamo dare uno sbocco democratico, bisogna cambiare pagina e orizzonti.

In un bel libro, Poveri Noi, Marco Revelli analizza il tipo di modernizzazione che si è realizzata in Italia. Ne consiglio la lettura agli addetti ai lavori. La tesi dell’autore è che la nostra è stata una modernizzazione regressiva che invece di spostare in avanti la società  italiana la resa più povera e debole di fronte alle sfide della globalizzazione. Scrive Revelli: “Liquidando i vecchi punti di forza senza sostituirli con nuovi”. Dissolvendo aggregati sociali e forme di organizzazione e di rappresentanza di valori e d’interessi senza trovarne i sostituti funzionali. E alla fine ritrovandoci, appunto se non più poveri tecnicamente (perchè c’è un’Italia del privilegio che si è arricchita e molto), certamente più vulnerabili e arretrati”.

Se ha un’urgenza l’Italia questa è che si formi con rapidità  una classe dirigente capace di prospettare un altro modello di modernizzazione del Paese. La si smetta di parlare di generiche grandi riforme e si lavori piuttosto a risolvere le contraddizioni interne ad un popolo a cui non manca genialità  e voglia di fare.

Con milioni di giovani senza lavoro, con una spesa pubblica troppo spesso inefficace non si va da nessuna parte. E’ il lavoro la vera grande emergenza che, per essere risolta, ha bisogno di un intervento pubblico sostanzioso capace di favorire le forze produttive più dinamiche. Tremonti ha tenuto i conti pubblici in ordine, dicono. Il problema è che senza crescita il peso del debito tenderà  ad aggravarsi. Per crescere c’è bisogno di riqualificare la spesa pubblica e trovare le risorse per quegli investimenti senza i quali non si cresce. Uno sforzo di creatività  per risolvere il buco nero dell’evasione fiscale potrebbe essere una buona cosa.

Mediocrità 

Mio figlio è iscritto all’ AIRE, l´ anagrafe della popolazione italiana residente all´estero. Un emigrato che vive in Inghilterra. Insegna alla Queen’s Mary College della London University. Per interesse personale e per lavoro, si occupa di sociologia e di storia del pensiero politico. Alla domanda di colleghi e studenti su cosa succede in Italia non riesce facilmente a trovare una risposta convincente. L’imbarazzo nasce dalla costatazione dello scarto tra l’Italia berlusconizzata e l’Italia che, in tutto il dopo guerra, è stata un laboratorio politico di valenza europea. Come è potuto accadere il passaggio tra una classe dirigente politica composta da Moro, Berlinguer, La Malfa, Nenni o Visentini e l’attuale ceto politico? Come è possibile che, con una delle Costituzioni più avanzate al mondo, si sia consolidato un populismo cialtrone che niente ha a che fare con una democrazia moderna? Se è vero che il fascismo è stato un’invenzione italiana è anche vero che la lotta di liberazione dal nazifascismo è stata nel nostro Paese di gran lunga superiore per impegno popolare al resto d’Europa. Mio figlio dovrà  continuare a studiare per trovare spiegazioni. Per adesso dovrà  cercare di dimostrare che un’altra Italia sarà  possibile. Un tentativo angoscioso che si traduce a volte in balbettio, mi dice. Lo capisco benissimo. Anche il sottoscritto farfuglia analisi. E’ difficile trovare una spiegazione al fatto che, al crollo della repubblica dei partiti, sia risultato vincente un personaggio come il nostro capo del governo. Figlio legittimo dei governi del pentapartito e del craxismo, Berlusconi trasse le sue prime fortune televisive proprio da leggi a persona volute da coloro che poi furono spazzati via da Tangentopoli. La storia è questa, eppure sono sedici anni di dominio dell’ideologia dell’uomo di Arcore. I sondaggisti sostengono ancor oggi che scandali e incapacità  nel governo del Paese sembrano non incidere in modo decisivo nel consenso popolare. La mitica società  civile sembra indifferente sia alle malefatte che al cattivo governo. Un’establishement mediocre galleggia nei marosi della crisi senza un moto d’indignazione verso un ceto di governo incapace di affrontare le contraddizioni del Paese. La spiegazione della potenza economica e dello strapotere nel mondo della comunicazione di Berlusconi è vera ma non sufficiente a spiegare tutto.
Ciò che rende forte la destra al governo è la mancanza di un progetto e di un’alternativa politica ed ideale al berlusconismo.
La destra fuori del PDL e della Lega sconta il ritardo nel distaccarsi dal Capo; il centro continua ad ondeggiare tra la tentazione del rimbarcarsi o dello strappo finale; la sinistra continua nella propria angosciante ricerca di un’anima, di un gruppo dirigente coeso, di un progetto politico che aggrega il centro e la sinistra. Al momento non conosco la piattaforma che i veltroniani del Lingotto proporranno al Paese. Lo slogan della convention è: “Fuori dal Novecento. Giusta, aperta, forte: viva l’Italia”. Ottimo e abbondante. Non ha la semplicità  dell’antico slogan pace e lavoro, ma la modernità  ha i suoi vincoli. Non so se è adatto ad una campagna elettorale, ma gli spin doctors dell’ex sindaco di Roma conoscono bene il loro mestiere lo hanno dimostrato nel passato ricco di vittorie. Importante è capire che siamo al rush finale. E’ inimmaginabile che il governicchio di Berlusconi e Bossi possa proseguire nel galleggiamento di questi ormai quasi tre anni di governo.
Consiglierei di prepararsi alle elezioni politiche.
Al di là  delle avventure più creative che quelle scritte da Boccaccio, la questione del federalismo comunale può costituire la miccia per la crisi finale. Lo sostiene Bossi, lo teme Berlusconi che dichiara: “Questo per me è lo scontro finale. àˆ una partita senza supplementari, il recupero non c’è. Non c’è per me, che ho 74 anni, e per nessun altro. Se vinco io, vado avanti fino al 2020. Altrimenti…”. Più chiaro di così difficile esserlo.
Altrettanta chiarezza sarebbe utile e necessaria nelle forze alternative al Cavaliere. Questa chiarezza non c’è ancora, ma come è noto la speranza è l’ultima a morire. Una comprensibilità  che deve riguardare le questioni che interessano i destini materiali del Paese. Bisogna spiegare bene le ragioni che hanno indotto l’ANCI (l’associazione dei comuni) a respingere la bozza dei decreti del ministro Calderoli relativi al federalismo. Il ceto amministrativo non gode di grande fama e la richiesta di responsabilizzare sindaci, presidenti e assessori sono una legittima richiesta di massa. Non è questione di qualunquismo. Esso va rintuzzato con scelte amministrative trasparenti che favoriscono la semplificazione burocratica del rapporto con i cittadini. Nonostante alcuni sforzi, quando si entra in rapporto con la pubblica amministrazione i vincoli burocratici rendono tutto difficile e costoso. Ancora oggi la parte pubblica della società  viene gestita in molti settori in modo arcaico come se la rivoluzione informatica non fosse mai avvenuta. Ci si affanna a destra, al centro e nel centrosinistra a dichiarare l’esigenza di grandi riforme senza mai chiarire cosa e come riformare. Le famose lenzuolate di provvedimenti di liberalizzazione del Bersani ministro, si sono rivelati poca cosa e poco incidenti nei tempi di svolgimento di pratiche burocratiche o di ridimensionamento dello strapotere dei vari ordini professionali. Con l’eccezione di quello degli ingegneri e architetti, questo a beneficio esclusivo delle imprese di costruzione e non certo dei comuni cittadini. Il governo liberale dei berluscones non ha al riguardo prodotto altro che propaganda.
Sarebbe semplice e comprensibile cominciare a riformare leggi e regolamenti che rendono deboli i cittadini e potente una burocrazia non sempre adeguata ai tempi.
L’autogoverno locale in Italia ha una lunga straordinaria storia. E’ tempo di rinvigorirla attraverso un nuovo patto di cittadinanza innovando e trasformando il modo di essere delle amministrazioni.

Radici

Come in altri momenti della storia della Repubblica, i referendum voluti dalla Fiat esemplificano lo stato del Paese. Il dato più significativo, e inaspettato, è il grado di resistenza di una classe operaia che, al di là  di ogni retorica e ideologia, riesce ancora una volta a rappresentare la parte più civile e avanzata del popolo italiano. Un risultato, quello del No a Pomigliano e a Mirafiori, ottenuto grazie alla Fiom, ma reso possibile anche da una mobilitazione che ha interessato energie diverse che, nonostante la permanente latitanza della sinistra riformista, continuano a ritenere che un altro mondo sia possibile. Soltanto Vendola, Di Pietro e ciò che resta della sinistra così definita radicale, hanno avuto l’ardire di appoggiare esplicitamente la Fiom. Non è poco, ma non è moltissimo per coloro che si riconoscono nel centrosinistra.
La vicenda Fiat è la conferma della pochezza della classe dirigente italiana in tutti i suoi protagonisti politici, economici e istituzionali.
L’aggressione mediatica contro le posizioni della Fiom e della Cgil non ha prodotto il plebiscito voluto da Marchionne e dal governo dei berluscones e i peana alla scontata vittoria del Sì non riescono a nascondere il fatto che il ricatto non ha funzionato.
I vari Fassino, Chiamparino, Renzi, Veltroni e Ichino come succede loro spesso, hanno perso l’occasione per tacere: presentare la coercizione del dottor Marchionne come la modernità  da accettare senza se e senza ma, dimostra soltanto la loro subalternità  culturale alle forme meno cialtronesche del berlusconismo.
I succitati riformisti alla amatriciana ci confermano nella nostra valutazione: il PD è il problema e non la soluzione dei problemi del centrosinistra. Il Partito democratico rimane un accrocchio politico che non riesce a sfuggire alle spinte disgregatrici dei vari fondoschiena dei suoi dirigenti. La drammaticità  della situazione sta nel fatto che nel pieno della catastrofe berlusconiana, nella deriva dell’Italia intera, la maggior forza di opposizione continua a balbettare su ogni questione e su ogni questione a dividersi. Possibile che una forza politica che ha ereditato parti essenziali del consenso popolare della sinistra comunista, socialista e cattolica della stagione dei partiti di massa, non abbia la capacità  di esprimere un gruppo dirigente riconoscibile, accettabile per i comuni mortali? Che non si riesca ad andare oltre alle ambizioni dei protagonisti di sconfitte ripetute e sistematiche che durano da venti anni? Per la prossima campagna elettorale quale idea d’Italia proporranno agli italiani, la modernità  alla Marchionne o un riformismo che parte dalle esigenze del composito mondo del lavoro e della cultura democratica? Se continua a prevalere il personale come valore esclusivo, il rischio per il Pd diventa la marginalità  e l’opposizione perpetua alla destra del dopo Berlusconi.
Anche nel nostro piccolo, in Umbria, in tutti i territori in cui si svolgeranno i rinnovi delle amministrazioni locali, lo scontro personale per la sindacatura è all’ultimo sangue. Parliamo di elezioni per la riconquista di strutture pubbliche che hanno bilanci falcidiati dalle politiche tremontiane e che saranno obbligate a tagliare servizi e ad aumentare le tariffe. Ma l’angoscia nel PD sembra essere quella se il candidato a sindaco sarà  della cordata di pinco o in quella di pallino. Saranno i veltroniani a scegliere a Città  di Castello o la resistenza dei dalemiani avrà  la meglio? Avrà  successo il candidato del presidente della provincia o prevarrà  quello voluto dai bersaniani?
Il popolo assiste attonito alla straordinaria tenzone. Mentre cresce il distacco del ceto politico dalla gente comune al ridicolo sembra non esserci mai fine.
Eppure cose da discutere non mancherebbero. Certo, lascia basiti il fatto che con tutti i problemi che ha la nostra piccola comunità  siano ricominciate le guerre di religione. Ci risiamo con le radici francescane, benedettine e capitiniane dell’Umbria.
Il presidente Guasticchi, attivissimo in ogni campo, impone nello statuto dell’ente che amministra tali radicamenti.
In Regione la discussione sul rinnovo dello statuto è a buon punto: la partita sulle radici è aperta.
Noi siamo ormai stanchi di ripetere l’ovvia considerazione sulla laicità  delle istituzioni. Non crediamo che il francescanesimo, a cui va tutto il nostro rispetto e simpatia, aumenti il suo fascino attraverso il comma di una legge o di una delibera della Provincia di Perugia. Nè che l’Umbria abbia bisogno di discussioni di tale natura in una fase della storia regionale in cui ci sarebbe bisogno che le sue classi dirigenti affrontassero con competenza i nodi strutturali che rischiano di annichilirla.
Non siamo convinti che qualche miracolo ci salvi da una deriva che sta producendo nuove povertà  e che lascia le nuove generazioni senza speranze di una scuola accettabile e di un lavoro civile.
Meglio sarebbe un impegno a mettere a leva le risorse che ci sono e che non sempre vengono considerate dalle classi dirigenti che continuare in discussioni e divisioni che appassionano esclusivamente il ceto politico.

Riflessioni obbligatorie

Adesso, dopo il Sì al referendum, Marchionne dovrà  trovare il modo di risalire la china della perdita di quote di mercato peculiarità  della Fiat di questi ultimi anni. Gli ultimi dati conosciuti affermano che la vendita di auto è caduta del 4,9% in Europa ma la Fiat perde invece il 17% delle sue vendite. Il nostro presidente del consiglio aveva riconosciuto all’amministratore delegato del più grande gruppo industriale privato, il diritto di investire in altri Paesi nel caso che il No avesse vinto nel referendum di Mirafiori. La dichiarazione aveva suscitato qualche perplessità  in molti ambienti. Abbiamo un capo di governo molto atipico anche per ciò che riguarda lo sviluppo economico e gli interessi del Paese che dovrebbe governare. Il suo amico Sarkozy ha investito 7 miliardi per salvaguardare la produzione di auto in Francia. La sua amica Merkel ne ha investito 3 di miliardi. L’abbronzato Obama ha esagerato: 60 sono i miliardi investiti dal governo americano per salvare l’auto Made in Usa. Il governo brasiliano, quello serbo, quello messicano hanno finanziato massicciamente la Fiat per produrre nuove auto nei loro territori. I sindacati tedeschi sono presenti nei consigli di sorveglianza delle fabbriche d’auto. I sindacati americani posseggono il 63% delle azioni Chrysler. E nel Bel Paese che succede? Il ciarliero ministro Sacconi è lieto che abbia vinto il Sì, e lì si ferma. Il governo nel suo insieme ha fatto esclusivamente da grancassa alle posizioni di Marchionne senza pretendere da questi alcun piano industriale strategico che assicuri un futuro alla presenza della Fiat in Italia. Pensare di risolvere i problemi con i SUV progettati e prodotti in Usa e assemblati a Mirafiori sembrerebbe poca cosa. Ma il governo di Berlusconi-Bossi è certo che il Marchionne sia sulla strada giusta. L’inconsistenza del governo è stata tale che ancora non è dato sapere se nei piani della Fiat ricerca, progettazione e centri direzionali rimarranno in Italia o se ai diversi siti italiani sarà  affidato esclusivamente il compito di produrre veicoli pensati e progettati in altri Paesi. Si rimane stupefatti dall’inconsistenza della classe dirigente che ha gestito tutta la vicenda Fiat. Una tragedia per migliaia di lavoratori costretti a scelte dolorose non solo perchè le loro condizioni di lavoro peggioreranno, ma perchè nessuno è stato in grado di assicurare che i sacrifici richiesti serviranno davvero a salvare il loro lavoro. L’incidenza del costo del lavoro sulla produzione è del 7%, sette per cento. Il problema è comprimere questo costo o il problema è quello di un management Fiat che non è stato in grado di realizzare auto competitive con quelle tedesche, francesi o giapponesi? Quanto ha investito in innovazione di prodotto la Fiat del geniale canadese? Paradossale è poi presentare il tutto come frutto della modernità  e etichettare chi si oppone come arcaica persona che rimane ancorata al novecento. Che l’accusa la faccia il Sultano di Arcore è scontato. Lui è uomo di mondo che la modernità  la mastica da mattina a notte inoltrata. Lascia di stucco quando lo stesso argomento proviene dagli americani del centrosinistra. Loro dovrebbero sapere i vincoli che Obama ha posto al dottor Marchionne. Eppure il PD ha rischiato nuovamente la rottura perchè Bersani, sommessamente, aveva dichiarato qualche leggera affinità  con la posizione della Camusso della CGIL. Veltroni è gli altri volevano un partito bocconi sulle posizioni di Marchionne. Il rampante Renzi dichiara che Lui sta con Marchionne senza se e senza ma. Ottimo e innovatore come suo solito. Il sindaco uscente di Torino, Chiamparino, e quello che si candida a diventarlo, Fassino, da buoni torinesi non possono dire cose diverse dalla Fiat. Ma il referendum ha dimostrato che ancora oggi la classe operaia della loro città  non ha alcuna intenzione di rinunciare a diritti e condizioni di lavoro conquistate con durissime lotte. Una rilettura della storia del movimento operaio torinese avrebbe aiutato in questa occasione i due dirigenti del PD. Al momento, non scommetterei un Euro sul voto operaio a favore del candidato sindaco Fassino. Si porranno Fassino e Chiamparino qualche domanda sul grado di conoscenza di quello che pensano i loro amministrati? Dopo che la FIOM è stata per mesi e mesi malmenata da televisioni, giornali, intellettuali, sindacalisti e governanti di ogni colore, il referendum ha detto che il 46% dei lavoratori di Mirafiori ha apprezzato la posizione della CGIL. Il Sì ha vinto grazie al voto degli impiegati: su 441 voti soltanto 20 hanno detto di No. Il diritto al voto dei camici bianchi è ovviamente inalienabile, ma un problema c’è: le auto vengono costruite principalmente grazie al lavoro operaio. Gestire una fabbrica spaccata in due non sarà  facile. Doverosa una riflessione della dirigenza aziendale e dei sindacati del Sì e del No. Si potrà  escludere dalla rappresentanza il 46% dei lavoratori come prevede l’accordo? (altro…)

Bugie

Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani è stato lo slogan di leghisti e berluscones in ogni governo della destra. Sono passati sedici anni e gli italiani che pagano le tasse hanno visto aumentare sistematicamente la loro tassazione. Siamo tra i Paesi europei a più alto prelievo fiscale a compensare il record quasi mondiale dell’evasione contributiva. Ci viene spiegato che con un debito pubblico così elevato è impossibile una riduzione delle tasse: l’Europa non lo consentirebbe. Eccellenti economisti hanno ripetutamente dimostrato che il debito pubblico italiano è il risultato di un sistema fiscale che consente a una parte decisiva della ricchezza privata di scomparire nei meandri di condoni, controlli insufficienti, scudi fiscali di varia natura. L’Europa c’entra poco con le distorsioni volute dalle classi dirigenti italiane impegnate principalmente nella difesa del blocco sociale da cui ottengono il consenso politico. Per la prima volta nella storia repubblicana le entrate fiscali dello Stato non aumenteranno. La crisi economica incide ovviamente anche su questo aspetto della deriva del Paese. Permanendo la costante di una platea contributiva sostanzialmente ancorata al lavoro dipendente, non volendo incidere sulle grandi ricchezze private, è difficile non continuare a mettere le mani nelle tasche dei soliti noti per far quadrare i conti pubblici. Le tasse non aumenteranno continuano a dirci. Una bugia, quella del governo, che diviene beffa in questo inizio anno. Non c’è amministrazione locale che non preveda aumenti a due cifre di tariffe per la gestione dei trasporti e in genere di molti dei servizi al cittadino. Meno servizi e più costosi per gli utenti. L’alternativa sarebbe la chiusura di tali prestazioni dicono, con qualche ragione, i sindaci di destra o di centrosinistra. Dopo la cura tremontiana i trasferimenti dello Stato alla rete delle autonomie, è praticamente impossibile sostenere lo stesso livello di prestazioni di un welfare già  precario e distorto. Precario per tutte le generazioni, inesistente per i giovani di ogni parte d’Italia. I cantori del libero mercato e delle liberalizzazioni non hanno compiuto un singolo atto a contrasto delle situazioni di oligopolio presenti in molti settori dei servizi siano quelli assicurativi o quelli dell’energia. Nessuno ci chiarisce ad esempio perchè le bollette per il consumo del gas o il costo delle assicurazioni per le auto siano le più alte d’Europa. La politica continua a svolgere i suoi riti completamente slegati dalla realtà  materiale del popolo. Berlusconi, dopo l’acquisto di Cassano, continua nella sua campagna acquisti. Vuol vincere il campionato di calcio e contemporaneamente ingaggiare qualche deputato che, per senso di responsabilità , lascia l’opposizione in favore del suo efficiente governo. Che la vittoria dell’A.C. Milan faccia bene al governo e, nella certezza del Cavaliere, renda felice il Paese è opinabile. Che la conversione di qualche deputato renda il governo più stabile rientra nel mondo fantastico del Capo. Un mondo in cui i nemici rimangono i comunisti. Sempre loro. Ancor più pericolosi, dice l’Uomo di Arcore, perchè vestono addirittura come i ricchi borghesi e vanno in vacanza dove l’esclusiva sarebbe riservata alle facoltose signore di buona famiglia o alle veline accompagnate da qualche giocatore. Gli esperti dicono che se Berlusconi ricomincia con il pericolo comunista significa che le elezioni si avvicinano. Presentare Veltroni o Di Pietro come pericolosi comunisti sembrerebbe eccessivo. Di comunisti in giro ce ne sono pochi e quasi tutti non hanno alcun potere se non quello di produrre qualche eccellente analisi di questo mondo agghiacciante dopo la cura liberista degli ultimi decenni. Di questi tempi gli unici ex comunisti che mettono paura sono tutti amici, stretti amici di Berlusconi. Il Putin ad esempio non rassicura affatto per sensibilità  democratica, come si vede spesso prevale in lui la lunga esperienza nel KGB di sovietica memoria. Difficile indovinare cosa ha in mente il Cavaliere, vedremo. (altro…)

Generazioni

La mia è stata una generazione politicamente fortunata. Non solo perchè nel mondo dei nostri venti anni la caratteristica essenziale che accompagnava le aspettative del popolo era la speranza di una vita migliore, ma anche perchè  chi iniziava a militare nel sindacato o nella variegata struttura del movimento operaio, si poteva confrontare e formare politicamente, attraverso un rapporto intenso con una generazione non comune di dirigenti.
La loro singolarità  non era frutto soltanto della storia che avevano vissuto nella loro giovinezza: l’opposizione al fascismo, la Resistenza, che per molti di loro, ha rappresentato il viatico all’impegno politico,  a guida delle aspre lotte del primo dopoguerra per la realizzazione di una democrazia di massa, come occasione di formazione politica ed umana. Nonostante l’egemonia democristiana, la sinistra italiana, comunista e socialista, riuscì a costruire un movimento politico che, pur condizionato dalla guerra fredda, seppe interpretare al meglio le esigenze di un popolo travolto dalla guerra nazi-fascista.
Quello che fu chiamato il partito nuovo fu frutto dell’intelligenza di Togliatti e dei dirigenti usciti dalla clandestinità  e tornati dall’emigrazione politica. Questo gruppo dirigente, il cui prestigio era leggendario, riuscì ad aprirsi alla generazione di uomini e donne, cresciuta nella lotta di liberazione, nel conflitto elettorale per la Repubblica, che, dopo la bruciante sconfitta delle elezioni politiche del 1948, rimase in campo con enormi sacrifici personali e familiari.
Il rinnovamento del partito non fu un processo facile, lineare. Lo stalinismo era il brodo culturale di una parte rilevante del gruppo dirigente, ma anche gran parte del popolo comunista si riconosceva nel legame internazionalista inteso, di fatto, come rapporto di subalternità  all’URSS vittoriosa sul nazi-fascismo.
I vincoli formali e sostanziali, le liturgie che regolavano la vita interna del partito, rendevano il processo di rinnovamento dei gruppi dirigenti difficile e contraddittorio.
La discussione interna ai partiti del movimento operaio non fu un pranzo di gala. Rispetto alla trasformazione del partito da avanguardia della rivoluzione a partito della democrazia progressiva, lo scontro interno fu aspro, lacerante. Soltanto con l’ottavo congresso del Pci prevalsero le forze del rinnovamento e si accelerò la costruzione di un movimento politico di massa capace di radicarsi nella realtà  che voleva trasformare.
Su questi temi esiste una letteratura imponente, i vari passaggi vissuti dal partito sono stati ampiamente analizzati e descritti. Per quanto mi riguarda, tuttavia, i processi di conoscenza e di comprensione sono stati frutto non solo di letture, ma soprattutto dell’intenso rapporto che ho avuto da giovanissimo con alcuni dei protagonisti di quelle discussioni, di quei drammatici congressi di partito. Intendiamoci, vincoli e liturgie rimasero, furono una costante anche nel partito post XX congresso del PCUS.
Nell’ottobre del 1956 Raffaele Rossi, in un bilancio sul dibattito della federazione ternana dopo il Rapporto Krusciov, scrive: “No, questo modo di discutere non è una cosa positiva e io non credo che servirà  a qualcosa. La discussione nella sezione di una città  della nostra provincia aveva avuto questa caratteristica. Quando qualche giorno dopo un dirigente della federazione invitò i segretari delle sezioni di quel comune a riunirsi per discutere del XX Congresso, costoro unanimemente risposero: no, lasciateci in pace con le critiche a Stalin. Abbiamo la lotta dei mezzadri cui pensare.”. E’ un esempio di come fu difficile trasformare l’utopia del socialismo in un discorso di dolorosa verità  che consentisse di avanzare nella costruzione di un partito di massa che avesse come obbiettivo primario una repubblica democratica, come terreno più avanzato per la costruzione di una società  socialista diversa da quelle conosciute.
Insomma, una sensibilità , diciamo così, di staliniana memoria non ha mai cessato di esistere sia ai vertici sia alla base del PCI, ma la mia è stata una formazione politica che ha avuto maestri diversi.
I miei tutori erano tutti espressione di una generazione che aveva fatto i conti con le tragedie dell’URSS e del movimento internazionalista. Leader fortemente legati alla società  ed espressione di quel tessuto democratico rifiorito dopo la caduta del fascismo. Molti di loro, compreso Raffaele Rossi, abbandonarono la professione, il posto fisso, per divenire funzionari di partito stipendi, quando c’erano, che definire miseri è un complimento. Per la cronaca. Fino a tutti gli anni 80, il trattamento di un funzionario del PCI non poteva superare quello di un operaio metalmeccanico al massimo della carriera. La sobrietà  come vincolo del lavoro politico era un valore che oggi sembra smarrito.
Operaio in una grande fabbrica, con la timidezza e l’incoscienza dei miei diciotto anni, mi apprestai alla militanza politica con lo spirito dell’allievo. (altro…)