da Francesco Mandarini | Ott 28, 2012
Un problema elencare tutte le presidenze occupate da Luca Montezemolo. Recentemente ne ha lasciata una e nello stesso tempo ha annunciato la discesa nel campo della politica. Vorrebbe essere il leader di uno schieramento esterno al centrodestra berlusconiano e al centrosinistra di Bersani e Vendola. Al momento non sembra particolarmente interessato alla proposta politica del sempre vivace Pier Ferdinando Casini. Il presidente della Ferrari ha già raccolto adesioni rilevanti nel mondo sindacale e politico, si è dichiarato uno sponsor del presidente Monti. Quest’ultimo di tutto si può lamentare, ma ha tifosi in tutti gli schieramenti politici e questo dovrebbe riempirlo di soddisfazione. L’agenda Monti sembra essere la nuova bibbia da seguire e qualunque sia lo schieramento che vincerà le prossime elezioni politiche, dovrà applicarne le regole. Da sciocchi non riconoscere all’uomo della Bocconi il merito di aver ridato dignità alla figura del presidente del consiglio, dopo la calaverna provocata dal presidente del Milan, non era facile e non è cosa da poco. Da liberista convinto, Monti ha scelto di ridimensionare profondamente la spesa pubblica e l’intervento dello Stato nell’economia e nel sociale. Una scelta obbligata per tutto ciò che riguarda il costo della politica e dell’ipertrofia istituzionale stratificatasi nei decenni passati. I danni prodotti ai conti pubblici da un ceto politico incapace e troppo spesso corrotto, sono stati enormi sia in termini economici sia nel funzionamento della democrazia. Sacrosanto, quindi, porsi il problema dei costi e della tenuta dei conti pubblici. Meno apprezzabili le scelte che indeboliscono ulteriormente quel poco di welfare realizzato in Italia. A differenza di alti Paesi europei, il welfare da noi si è organizzato in gran parte attraverso le amministrazioni locali. Sono anni ormai che i tagli riguardano i trasferimenti agli enti territoriali nei settori della sanità , del trasporto pubblico, nella scuola e in genere nel sociale. Anche le buone amministrazioni e per fortuna ce ne sono, non possono più soddisfare esigenze primarie della popolazione. All’aumento della disoccupazione e al lavoro precario si è aggiunta la minor offerta pubblica di servizi al cittadino. Appare difficile immaginare una qualche forma di uscita dalla crisi se la tenuta sociale si avvia vero un’implosione. Forse l’agenda Monti finora attuata merita qualche riflessione e non solo nel centrosinistra. Un popolo impoverito economicamente e socialmente con difficoltà potrà affrontare le scadenze di una crisi che non sembra trovare soluzione? Economisti di primo piano sostengono con vigore e argomenti solidissimi che le politiche di austerità porteranno al disastro. Gli argomenti? Quello che sta già succedendo in Grecia, in Spagna, in Irlanda e in Portogallo. Tagli al bilancio pubblico, licenziamenti di massa, chiusura d’imprese, non sono serviti a mettere a posto il bilancio pubblico. Gli ottantasette miliardi di euro trasferiti in Spagna alle banche non hanno ancora messo in sicurezza il sistema creditizio spagnolo. E nel frattempo la disoccupazione ha raggiunto il 25%. Jean Paul Fitoussi è un economista francese molto apprezzato. In un’intervista ha definito le politiche di austerità disastrose che nel medio periodo aggraveranno la crisi dell’intera area della Comunità Europea. Il ragionamento che fa è semplicissimo. Lo sviluppo di un Paese ha bisogno della tutela del capitale umano, delle strutture industriali e d’investimenti in infrastrutture materiali e immateriali oltre che di una buona scuola e di seri progetti di ricerca. Al momento l’agenda Monti (agenda europea, ci dicono) tralascia completamente tutti questi fattori di sviluppo. Fitoussi sostiene che è giusto riportare a pareggio le spese correnti, ma è da insensati non indebitarsi per investire appunto nel capitale umano, nella difesa del tessuto industriale e nella ricerca. In una famiglia le entrate devono coprire le spese “correnti”. Se si vuole comprare la casa, bisogna fare un mutuo. Banale ma è così. Non è ormai tempo per porre a livello europeo la questione di come andare oltre le rigidità imposte dalla Germania e dagli altri Paesi forti del Nord? E’ una falsità affermare che queste nazioni sorreggono economicamente i Paesi cicala del Sud d’Europa. Il presidente Monti ha ragione quando sostiene che nemmeno un Euro tedesco è arrivato a sostegno dell’Italia. Dovrebbe aggiungere che è il contrario. La Germania paga i suoi investimenti molto meno di quello che paghiamo noi grazie allo spread. Senza esagerare si può sostenere che la locomotiva tedesca funziona anche grazie al differenziale tra il nostro e il loro servizio del debito. Quanto può durare questo stato di cose? Le spinte anti europee si vanno diffondendo in larghe fasce della popolazione. L’Europa si presenta con il volto corrucciato del ministro delle finanze tedesco e con le durezze della troika. Nazionalismi e populismo rischiano di offuscare nei popoli il grande sogno di un’Europa unità e solidale. Un sogno che per realizzarsi ha bisogno anche di una solidarietà che si è completamente smarrita a causa dei governi di centrodestra europei. Una delle ragioni della creazione dell’euro è stata quella di impedire la speculazione sulle diverse monete dei Paesi europei. Non da oggi è in atto una speculazione finanziaria sui titoli pubblici dei singoli Paesi. E’ proprio una follia immaginare un titolo pubblico di valore europeo? O la follia sta proprio nel non realizzarlo?
Corriere dell’Umbria 28 ottobre 2012
da Francesco Mandarini | Ott 22, 2012
Una vecchia massima degli addetti ai lavori sostiene che un attore non va giudicato dalla sua entrata in scena. La valutazione deve essere espressa sul modo che si ha nell’uscire dal palcoscenico. Arduo è il giudicare le preannunciate rinunce al seggio parlamentare di vari personaggi della politica italiana, come paragonabili alle uscite a cui ci abituò Laurence Olivier al termine di un’opera di Shakespeare. Di là dello stile nell’uscita, tutte le rinunce nascono da un’impostazione sbagliata, monca, insufficiente nell’analisi. Stupisce che dirigenti di lungo corso e con adeguate letture, non si siano posti, nell’annunciare la prossima rinuncia allo scranno parlamentare, il problema dello stato della politica e della democrazia italiana. Un Paese in cui vari sondaggisti sostengono che alle prossime elezioni il partito più numeroso potrebbe essere quello del non voto. Sostenere che Renzi ha già vinto perchè gli eterni duellanti del PD rinunciano alla candidatura, è una madornale sciocchezza. E anche se così fosse rimarrebbe irrisolta la grande questione della democrazia repubblicana. Problema essenziale della democrazia italiana è la ricostruzione di luoghi organizzati della buona politica e non le pessime corride interne ai gruppi dirigenti degli attuali partiti. Con il massimo rispetto di coloro che nel PD s’impegnano per rendere questa formazione politica adeguata ai tempi, ritengo che il lavoro da fare rimanga moltissimo e la stagione è di quelle che richiedono scelte urgenti e radicali. La libertà di opinione e di dibattito è certamente una ricchezza, ma senza una piattaforma unitaria e non generica, il dibattito interno diviene la diaspora delle idee senza alcuna attrazione nè costrutto. Il rinnovamento non è soltanto un problema generazionale, esso richiede ben altro che lasciare un posto nelle assemblee elettive a un candidato più giovane. Ciò di cui ha bisogno la democrazia, è il mutamento radicale dell’agire politico in una fase di profonda crisi del rapporto tra il popolo e la politica. E ciò riguarda i vecchi e i giovani. Una crisi che si è incancrenita negli anni per molti motivi. Certo il ricambio dei gruppi dirigenti dovrebbe essere un percorso scontato in organismi sani. In questi anni non lo è stato perchè è mutato radicalmente il modo di essere del dirigente politico. La politica come spettacolo ha richiesto caratteristiche in cui la cultura politica diviene marginale. Conta il bucare lo schermo, l’arroganza e spesso la volgarità nell’argomentare. L’avversario è dentro, il tuo amico o compagno di partito. Quanti partiti personali ci sono in Italia? Tanti e tutti ademocratici, alla faccia dell’articolo quarantanove della Costituzione. Una democrazia la nostra che non si è saputa rinnovare e dopo il disastro seguito alla morte dei partiti di massa è iniziato l’avanspettacolo. Si è aperta così una prateria per tutti quelli che hanno inteso la politica come un luogo dove la tutela dell’interesse personale diveniva l’unico obiettivo. L’interesse generale, invece, diviene un orpello da comizio televisivo che non necessità di essere salvaguardato. Certo non tutti coloro che sono impegnati in politica o nella gestione amministrativa in questi anni hanno privilegiato il personale sul generale, ma nel senso comune prevale il rifiuto ed esso rischia di coinvolgere tutti. La cosa è grave in sè. Diviene un dramma in una situazione d’impoverimento progressivo del Paese. E’ un impoverimento certificato dai numeri della disoccupazione e del precariato. Quando le donne della Campania hanno un tasso di occupazione pari alle donne del Pakistan, c’è da preoccuparsi.O no? Il decadimento è amplificato dal taglio sistematico di tutte le risorse pubbliche del già fragile sistema di welfare esistente in Italia. Per la mancanza di adeguati servizi pubblici una giovane donna è posta di fronte alla scelta tra maternità e lavoro anche quando questo sarebbe possibile. E’ legittimo indignarsi per gli scandali emersi in tante regioni del Paese, sarebbe pure utile preoccuparsi per lo stato della finanza locale. Anche le regioni e le amministrazioni virtuose non avranno le risorse necessarie a soddisfare esigenze primarie della cittadinanza. Nella testa di molti nostri governanti prevale l’ideologia del “meno stato più mercato”. Un’ideologia che ha fatto fallimento in ogni parte del mondo, ma essendo un’ideologia continua a guidare le scelte dei “credenti”. Che cosa è stato imposto alla Grecia per aiutarla a pagare il suo debito? Tagli a tutto ciò che è pubblico, liberalizzazioni, licenziamenti di massa nel pubblico impiego. Risultati dopo tre anni di cura? Il disastro economico e sociale. La disoccupazione? Sono più i disoccupati degli occupati. Rappresentanti di un partito neo-nazista siedono nel parlamento greco e incitano alla rivolta anti europea. La troika (BCE, FMI, Commissione Europea) pretende altri tagli e altri licenziamenti. La finanza ha bisogno di certezze, dicono. Ricette sbagliate che sono ripetute in Portogallo, in Spagna e in Italia. Indifferenti ai fallimenti ripetuti restano soggiogati dall’ideologia. Il libero mercato come panacea dei mali dello sviluppo irresponsabile. In tutto il mondo, la politica è in crisi profonda. Si può riempire una biblioteca con testi che descrivono la decadenza della democrazia in occidente a seguito dello spostamento dei centri in cui il potere sui popoli è esercitato dai governi, dai parlamenti, ai conglomerati finanziari e alle strutture non elettive. E’ questo il risultato della deregulation e del dominio della finanza sull’economia reale. Il capitalismo rampante non ha alcun bisogno della democrazia. Non è ancora evidente?
Corriere dell’Umbria 21 ottobre 2012
da Francesco Mandarini | Ott 15, 2012
Settimana di dichiarazioni interessanti di leader politici e di decision maker dell’economia. Molti di loro non resistono. Appena hanno un microfono a portata di mano, dichiarano. Poi, precisano. Il sobrio Monti, con un leggero sogghigno, ha rilevato che il suo governo, nonostante tagli e austerità a senso unico che provoca una manifestazione al giorno, ha un apprezzamento popolare maggiore di quello di cui godono i partiti. Poi, reso consapevole che a Palazzo Ghigi è entrato grazie ai partiti, ha lodato il senso di responsabilità dei partiti stessi così invisi alla pubblica opinione. Chi non ricorda l’onorevole Maroni con le scope dorate che annunciava la “pulizia” nella Lega. Di fronte alla scoperta delle infiltrazioni malavitose nella giunta lombarda, si fantasticava che avrebbe usato per le pulizie un aspirapolvere industriale, invece si è ritenuto soddisfatto per la decisione di Formigoni di cambiare la giunta. Al posto di leghisti bossiani, ci saranno assessori maroniani. Abbiamo ottenuto quello che volevamo, dichiara l’ex Ministro. Poi La lega ha cambiato il parere di Maroni e ha staccato la spina a Formigoni. La poderosa Polverini ha coperto Roma di manifesti annuncianti l’aver mandato a casa i ladri e malfattori regionali, poi vorrebbe rimanere in carica fino ad aprile. Così i consiglieri di un consiglio sciolto continueranno a prendere le loro prebende. Deluso dalla delusione dell’ex suo fan, Matteo Renzi, l’uomo residente in Svizzera, stipendiato in Italia, amministratore della Fiat, Sergio Marchionne ha dichiarato che il concorrente di Bersani è un pessimo imitatore di Obama per giunta sindaco di una città piccola e povera. Qualcuno deve avergli spiegato che definire Firenze in tal maniera dimostrava l’esigenza di qualche lettura in più da parte del genio dell’auto.Il Marchionne affannosamente precisa che Lui ama così tanto l’Italia da augurarsi un Monti Forever capo del governo. Il rapporto di Marchionne con il nostro Paese e con la democrazia è problematico. E forse abbisogna di qualche riflessione da parte di coloro che lo salutarono come il rinnovatore delle relazioni industriali. Che dire delle dichiarazioni di Cristine Lagarde, capo del fondo monetario internazionale? La leader del FMI ha dichiarato guerra alle politiche di austerità imposte alla Grecia e adottate da tutti i governi dell’Europa comunitaria. Sono politiche sbagliate che aggravano la crisi. Chi ha imposto l’austerità ? La troika. Da chi è composta la troika? Da BCE, Commissione Europea e da FMI. Legittima l’indignazione di chi subisce l’austerità ? Forse l’indignazione comincia a non bastare più.
L’impressione che si può legittimamente avere è che le classi dirigenti sono in genere di una qualità scadente in tutto il mondo. Certo però la nostra rasenta l’imbattibilità . Finalmente una commissione del Senato ha deliberato un testo di riforma della legge elettorale. Finalmente andremo oltre il “porcellum”? Andiamo oltre ma verso dove? Si torna alle preferenze ma un trenta per cento di candidati all’elezione sarà in liste bloccate scelti ovviamente dalle oligarchie. La discussione sui sistemi elettorali è certamente interessante, ma necessita di andare oltre l’interesse di partito se si vuole una democrazia viva ed efficace. Può essere forte una democrazia dove sono in vigore diversi sistemi elettorali a seconda il tipo di elezione? Da noi vigono sistemi elettorali diversi per eleggere il sindaco, il presidente di provincia, il parlamentare, il parlamentare europeo e ogni singola regione elegge i suoi membri in maniera che può essere diversa. Una follia unica al mondo. Non sarebbe tempo di mettere ordine? Certo il presupposto è che i partiti trovino il modo di rifondarsi per svolgere il ruolo che la Costituzione assegna loro. La frenesia di questi anni di apportare modifiche alla Carta non potrebbe manifestarsi anche trovando il modo di far approvare in questa legislatura una legge sui partiti secondo i principi dell’articolo quarantanove della Costituzione? I partiti personali, liquidi, leggeri o di plastica di questi anni sono la causa principale della cattiva politica e della corruzione emersa grazie all’azione della magistratura. Non si tratta di mele marce. E’ tutto il sistema politico che deve essere rifondato. Quello che conosciamo non può che produrre le brutture che stanno massacrando la democrazia italiana. Bisogna fare scelte che rovesciano la filosofia prevalente di questi anni. La politica come mestiere non può che produrre una cattiva politica. Quando per divenire consigliere comunale s’investono decine di migliaia di euro in cene, santini, spot televisivi, c’è qualcosa che non va. Si può vivere per la politica. Quando si vuol vivere di politica, si può rischiare di divenire una mela marcia. Sbaglierò, ma da sempre sono convinto che la società debba sopportare il costo di una democrazia che per vivere ha bisogno dei partiti. In tutto il mondo, la democrazia ha un costo sostenuto anche dal denaro pubblico. Con misura, però. Negli ultimi venti anni in Italia si sono fatte leggi sul finanziamento della politica assolutamente inaccettabili. Si è cominciato a ridimensionare, non basta. I partiti si devono principalmente autofinanziare con i contributi degli iscritti, degli elettori e degli eletti. Nessuno deve poter modificare il suo stato sociale facendo politica. La buona politica ti arricchisce culturalmente e umanamente. Quando l’arricchimento è di altra natura, cambia anche la qualità della politica. Basta aprire un giornale e se ne ha la conferma.
Corriere dell’Umbria 14 ottobre 2012
da Francesco Mandarini | Ott 11, 2012
In gran parte delle democrazie occidentali il candidato a capo del governo è il leader del partito che vince le elezioni. Il leader in genere è eletto in un congresso. Questo vale per le democrazie parlamentari mentre per i Paesi a regime presidenzialista o semi-presidenzialista si procede attraverso il dispositivo delle primarie. Per la Francia il meccanismo è di recente utilizzo mentre per gli Stati Uniti si tratta di un metodo di lunga durata. Il primo Stato a utilizzarlo fu il South Carolina nel 1896. Negli Stati Uniti le primarie sono regolate da leggi dei diversi Stati, leggi che la Corte Suprema può accettare o modificare. Le regole sono diverse da Stato a Stato ma tutte hanno la costante dell’obbligo d’iscrizione alle liste elettorali e agli “albi” pubblici dei partiti. Gli storici concordano nel ritenere che le primarie fossero la scelta volta a combattere gli apparati dei partiti e la corruzione delle oligarchie politiche. Di fronte a formazioni dei partiti poco democratiche si dà la parola agli elettori nella scelta dei candidati alle cariche pubbliche. Il partito democratico italiano ha, dalla sua fondazione, scelto le primarie come costante per decidere i propri candidati ad alcuni ruoli. Si è dato uno statuto che prevede che candidato a capo del governo, nelle primarie di coalizione, debba essere il segretario. Come succede spesso in questo pur decisivo partito, di la delle regole scritte, si procede per innovazioni incessanti. Continua a mancare un centro di gravità permanente. Al momento non conosco il risultato dell’assemblea nazionale del PD convocata per modificare lo statuto allo scopo di consentire al sindaco Renzi di partecipare alle prossime mitiche primarie. Spero che tutto sia andato positivamente. La cosa ha del paradossale, comunque. Sono settimane, mesi ormai che il centrosinistra è in tormento perenne su una questione che potrebbe rivelarsi inutile. Non si conosce con quale legge elettorale si andrà a votare. Incerte sono le alleanze e lo stesso centrosinistra non si sa più da quali forze sarà composto. Programmi, idee, valori da sottoporre all’elettorato manco a parlarne. E tutto ciò in una situazione che giorno dopo giorno si fa sempre più incerta e drammatica per molti milioni di persone. L’esplodere della questione lavoro non significa soltanto altra disoccupazione ma segnala un’altra fase della deindustrializzazione del Paese. L’ondata di scandali, ruberie varie e di privilegi di casta, dovrebbe allarmare per lo stato della democrazia italiana. Il sono tutti uguali, quindi tutti a casa, non riguarda soltanto la chiacchiera da bar, ma è un sentimento che si fa strada in strati sempre più vasti di una popolazione sconfortata. Delusa da una politica che non riesce a compiere scelte che dimostrino un barlume di autoriforma. Deve essere gestita una contraddizione difficile da risolvere. Senza una politica al servizio della nazione e, quindi, diversa da quella che leggiamo sui giornali, non si esce dalla crisi. Una parte consistente, non tutti, di chi svolge un ruolo politico è incapace di guardare all’interesse generale preso com’è dalla protezione del proprio interesse personale. Si può pensare tutto il male possibile del governo dei tecnici, ma certo era un’occasione straordinaria per consentire ai partiti un’autoriforma che allontanasse il marcio che si è stratificato, a tutte le latitudini politiche, in questi anni di berlusconismo rampante. L’autoriforma non c’è stata e ancora una volta è l’azione della magistratura a far emergere corruzione e illegittimi privilegi. No. Non sono tutti uguali, ma anche chi ha taciuto per anni sul degrado d’istituzioni e delle forze politiche ha immense responsabilità . Si sono accorti solo ora che alcune Regioni hanno utilizzato l’autonomia per divenire “statarelli” con il proprio “governatore”? Nei miei viaggi non ho mai incontrato un’ambasciata dello Stato della California o della Baviera, ho visto in giro per il mondo le sedi di rappresentanza di Campania, Lombardia e via dicendo. L’ondata antiregionalista mischia cose giuste e cose sbagliate. Se è giusto voler ricondurre a sobrietà queste istituzioni, è sbagliato considerare sprechi gli interventi regionali a vantaggio di manifestazioni culturali o di tutela di tradizioni popolari. La Regione dell’Umbria, ad esempio, è stata la fondatrice e ha sostenuto in parte finanziariamente, “Umbria Jazz”. Si poteva con qualche ragione sostenere che noi con il jazz c’entriamo poco. La storia però ci dice che quel festival ha consentito un ritorno economico e d’immagine mondiale di una regione insignificante dal punto di vista economico. E’ morto la scorsa settimana uno dei più famosi storici del mondo: Eric Hobsbawm. Lo storico inglese era un appassionato di jazz e ne ha scritta una storia. E’ un libro molto bello che, nella premessa, ricorda che il boom mondiale di questa musica, marginalizzata per tanto tempo, inizia con l’esplodere dei festival, tra questi Hobsbawm evidenzia “Umbria Jazz”. Che sarebbe la nostra comunità senza i numerosi festival musicali o senza la straordinaria Festa dei Ceri di Gubbio? L’ideologia che vuole che tutto sia ricondotto al libero mercato, come tutte le ideologie, è fallace. La cultura è un bene da salvaguardare anche attraverso l’intervento pubblico. Un’amministrazione comunale o una Regione hanno la responsabilità non solo della manutenzione delle strade o della sanità . Hanno anche quella di assicurare che le comunità amministrate siano messe in grado di apprezzare la cultura locale, nazionale e mondiale. Le autonomie locali devono essere riformate ripristinando controlli e sobrietà , ma non ridotte a semplici terminali della spesa decisa dallo Stato centrale.
Corriere dell’Umbria 7 ottobre 2012
da Francesco Mandarini | Ott 2, 2012
Sono sempre stato convinto che la riforma regionale del 1970 sia stata una delle tante riforme mancate. Occorrerebbe un saggio per approfondire l’argomento, ma già tanti studiosi hanno dimostrato quanto detto sopra. Basta ricordare come i nuovi enti nacquero completamente squilibrati nelle risorse e nelle competenze. Quando un bilancio è formato da una spesa vincolata per oltre il settanta percento per l’assistenza e la sanità , non poteva che essere difficile organizzare una comunità . Le regioni rischiavano di essere soltanto una grande ASL. Avvenne che alcuni dei presidenti di quella stagione Bassetti, Fanti, Lagorio e Pietro Conti, assieme a consigli e giunte adeguati, utilizzarono ogni spazio politico per migliorare la mediocre riforma. Riuscirono a strappare, attraverso una dura battaglia politica dentro i partiti di allora, competenze aggiuntive. Successivamente, per le regioni che furono capaci di progettare con intelligenza, la sponda delle risorse della comunità europea consentì una creatività amministrativa e una programmazione regionale che in molte parti del Paese, compresa l’Umbria, è stata per lungo tempo efficace. Per molte ragioni l’attività legislativa regionale non è stata di grande qualità : il potere legislativo vero era rimasto a Roma. Comunque il ceto politico decentrato andava via, via assumendo rilievo e importanza. I leader romani avevano bisogno dell’appoggio dei vari “feudatari” regionali. Il nuovo che avanzava richiedeva anche la formazione di un ceto politico organizzato in team di vassalli e valvassori legati al territorio. Inseguendo il federalismo alla padana, il centrosinistra al termine di una legislatura travagliata, nel 2001, fece approvare la riforma del Titolo Quinto della Costituzione con una maggioranza di due voti. Una boiata pazzesca direbbe Fantozzi, non solo perchè nella riforma costituzionale è prevista l’elezione diretta del presidente della giunta, argomento almeno controverso in una repubblica che rimane parlamentare e non presidenzialista, ma a prescindere da questo non secondario problema si prevede un livello di autonomia dell’ente, esorbitante. Soltanto essendo responsabili sia delle spese sia delle entrate si può essere autonomi nell’interesse generale. Dovrebbero essere chiare le competenze regionali rispetto allo Stato e agli altri organi pubblici locali e/o nazionali. E’ così in tutte le nazioni a struttura federale. In Italia, essendo quella regionale una finanza derivata, l’amministratore può esclusivamente scegliere come spendere una parte, secondaria, del bilancio annuale e trattare con il governo centrale il trasferimento dei fondi con forme di controllo “a posteriori” che fino a poche settimane fa non hanno dato risultati apprezzabili. Scomparso il commissario di governo che controllava con durezza ogni delibera di giunta, soltanto la Corte dei Conti a cose fatte è chiamata a un controllo della spesa. Qualche perplessità viene naturale di fronte a quanto sta emergendo in tante regioni italiane. Mettendo da parte, e non è facile, le cialtronerie e le ruberie legalizzate di tanti consiglieri di ogni latitudine, viene spontaneo il dubbio che pochi in questi anni hanno analizzato il funzionamento “normale” delle regioni dopo la geniale riforma della Costituzione. Con lo scudo dell’autonomia statutaria, in molte regioni si è andati all’assalto della diligenza della spesa pubblica. Vertiginoso è stato l’aumento di chi vive con un qualche incarico politico. C’è un problema? Un’emergenza? Si costituisce un ente, con conseguente consiglio di amministrazione e presidente ben pagato. Giunte pletoriche e nonostante lo svuotamento dei poteri delle assemblee, consigli regionali elefantiaci. Queste le costanti dell’attività regionale in molte aree del Paese. Perchè è esplosa negli anni l’ipertrofia del costo per il funzionamento della politica? Non sarà la conseguenza della personalizzazione della politica stessa? Leader, leaderini e mezze tacche hanno bisogno di manifesti, di spot televisivi, di cene conviviali per assicurarsi il consenso per un seggio, un seggiolino, uno strapuntino nella struttura pubblica. Non in tutte le regioni è andata così, per fortuna. Ci sono aree in cui i bilanci sono in ordine e le comunità sono civilmente amministrate da un ceto politico di livello apprezzabile. In certi casi, indennità e benefit di presidenti o consiglieri non dovrebbero suscitare scandalo, ma l’ondata iniziata nel Lazio della Polverini sta provocando un’indignazione popolare che tende a coinvolgere tutto e tutti. La destra politica utilizza la tesi di craxiana memoria del “siamo tutti uguali”. Il centrosinistra deve rispondere del proprio silenzio rispetto a quanto succedeva da anni in alcune regioni. Anche tra il ceto politico di centrosinistra non mancano episodi di sgradevole boria e arroganza di tanti addetti ai lavori. Le carriere infinite non sono un’esclusiva dei berluscones e la sobrietà non sembra a molti una qualità ma il retaggio di un agire politico troppo antico. Che la conferenza dei presidenti di regione chieda al governo centrale d’intervenire con decreto per eliminare sprechi e disparità provocate dalle scelte dei consigli e delle giunte regionali, è paradossale ma comprensibile. Non tutte le regioni sono in grado di autoriformarsi e in uno stato d’eccezione come l’attuale l’intervento del governo dei tecnici appare l’unica salvezza. Lo stato d’eccezione sarà la nostra condizione per lungo tempo? Sembrerebbe di sì. La disponibilità di Mario Monti a una conferma nell’incarico anche dopo le prossime elezioni ha scompaginato i programmi delle forze politiche. Paradossalmente è quel che resta del PDL che potrebbe trarre vantaggio dalla scelta montiana. Partito in liquidazione coatta potrà sempre propagandare che al governo rimarrà un liberista di provata fede che non ha mai rimproverato al Cavaliere le sue scadenti performance governative.
Corriere dell’Umbria 30 settembre 2012