Un mutamento radicale

Una vecchia massima degli addetti ai lavori sostiene che un attore non va giudicato dalla sua entrata in scena. La valutazione deve essere espressa sul modo che si ha nell’uscire dal palcoscenico. Arduo è il giudicare le preannunciate rinunce al seggio parlamentare di vari personaggi della politica italiana, come paragonabili alle uscite a cui ci abituò Laurence Olivier al termine di un’opera di Shakespeare. Di là  dello stile nell’uscita, tutte le rinunce nascono da un’impostazione sbagliata, monca, insufficiente nell’analisi. Stupisce che dirigenti di lungo corso e con adeguate letture, non si siano posti, nell’annunciare la prossima rinuncia allo scranno parlamentare, il problema dello stato della politica e della democrazia italiana. Un Paese in cui vari sondaggisti sostengono che alle prossime elezioni il partito più numeroso potrebbe essere quello del non voto. Sostenere che Renzi ha già  vinto perchè gli eterni duellanti del PD rinunciano alla candidatura, è una madornale sciocchezza. E anche se così fosse rimarrebbe irrisolta la grande questione della democrazia repubblicana. Problema essenziale della democrazia italiana è la ricostruzione di luoghi organizzati della buona politica e non le pessime corride interne ai gruppi dirigenti degli attuali partiti. Con il massimo rispetto di coloro che nel PD s’impegnano per rendere questa formazione politica adeguata ai tempi, ritengo che il lavoro da fare rimanga moltissimo e la stagione è di quelle che richiedono scelte urgenti e radicali. La libertà  di opinione e di dibattito è certamente una ricchezza, ma senza una piattaforma unitaria e non generica, il dibattito interno diviene la diaspora delle idee senza alcuna attrazione nè costrutto. Il rinnovamento non è soltanto un problema generazionale, esso richiede ben altro che lasciare un posto nelle assemblee elettive a un candidato più giovane. Ciò di cui ha bisogno la democrazia, è il mutamento radicale dell’agire politico in una fase di profonda crisi del rapporto tra il popolo e la politica. E ciò riguarda i vecchi e i giovani. Una crisi che si è incancrenita negli anni per molti motivi. Certo il ricambio dei gruppi dirigenti dovrebbe essere un percorso scontato in organismi sani. In questi anni non lo è stato perchè è mutato radicalmente il modo di essere del dirigente politico. La politica come spettacolo ha richiesto caratteristiche in cui la cultura politica diviene marginale. Conta il bucare lo schermo, l’arroganza e spesso la volgarità  nell’argomentare. L’avversario è dentro, il tuo amico o compagno di partito. Quanti partiti personali ci sono in Italia? Tanti e tutti ademocratici, alla faccia dell’articolo quarantanove della Costituzione. Una democrazia la nostra che non si è saputa rinnovare e dopo il disastro seguito alla morte dei partiti di massa è iniziato l’avanspettacolo. Si è aperta così una prateria per tutti quelli che hanno inteso la politica come un luogo dove la tutela dell’interesse personale diveniva l’unico obiettivo. L’interesse generale, invece, diviene un orpello da comizio televisivo che non necessità  di essere salvaguardato. Certo non tutti coloro che sono impegnati in politica o nella gestione amministrativa in questi anni hanno privilegiato il personale sul generale, ma nel senso comune prevale il rifiuto ed esso rischia di coinvolgere tutti. La cosa è grave in sè. Diviene un dramma in una situazione d’impoverimento progressivo del Paese. E’ un impoverimento certificato dai numeri della disoccupazione e del precariato. Quando le donne della Campania hanno un tasso di occupazione pari alle donne del Pakistan, c’è da preoccuparsi.O no? Il decadimento è amplificato dal taglio sistematico di tutte le risorse pubbliche del già  fragile sistema di welfare esistente in Italia. Per la mancanza di adeguati servizi pubblici una giovane donna è posta di fronte alla scelta tra maternità  e lavoro anche quando questo sarebbe possibile. E’ legittimo indignarsi per gli scandali emersi in tante regioni del Paese, sarebbe pure utile preoccuparsi per lo stato della finanza locale. Anche le regioni e le amministrazioni virtuose non avranno le risorse necessarie a soddisfare esigenze primarie della cittadinanza. Nella testa di molti nostri governanti prevale l’ideologia del “meno stato più mercato”. Un’ideologia che ha fatto fallimento in ogni parte del mondo, ma essendo un’ideologia continua a guidare le scelte dei “credenti”. Che cosa è stato imposto alla Grecia per aiutarla a pagare il suo debito? Tagli a tutto ciò che è pubblico, liberalizzazioni, licenziamenti di massa nel pubblico impiego. Risultati dopo tre anni di cura? Il disastro economico e sociale. La disoccupazione? Sono più i disoccupati degli occupati. Rappresentanti di un partito neo-nazista siedono nel parlamento greco e incitano alla rivolta anti europea. La troika (BCE, FMI, Commissione Europea) pretende altri tagli e altri licenziamenti. La finanza ha bisogno di certezze, dicono. Ricette sbagliate che sono ripetute in Portogallo, in Spagna e in Italia. Indifferenti ai fallimenti ripetuti restano soggiogati dall’ideologia. Il libero mercato come panacea dei mali dello sviluppo irresponsabile. In tutto il mondo, la politica è in crisi profonda. Si può riempire una biblioteca con testi che descrivono la decadenza della democrazia in occidente a seguito dello spostamento dei centri in cui il potere sui popoli è esercitato dai governi, dai parlamenti, ai conglomerati finanziari e alle strutture non elettive. E’ questo il risultato della deregulation e del dominio della finanza sull’economia reale. Il capitalismo rampante non ha alcun bisogno della democrazia. Non è ancora evidente?
Corriere dell’Umbria 21 ottobre 2012

Fondi pubblici e proclami

Settimana di dichiarazioni interessanti di leader politici e di decision maker dell’economia. Molti di loro non resistono. Appena hanno un microfono a portata di mano, dichiarano. Poi, precisano. Il sobrio Monti, con un leggero sogghigno, ha rilevato che il suo governo, nonostante tagli e austerità  a senso unico che provoca una manifestazione al giorno, ha un apprezzamento popolare maggiore di quello di cui godono i partiti. Poi, reso consapevole che a Palazzo Ghigi è entrato grazie ai partiti, ha lodato il senso di responsabilità  dei partiti stessi così invisi alla pubblica opinione. Chi non ricorda l’onorevole Maroni con le scope dorate che annunciava la “pulizia” nella Lega. Di fronte alla scoperta delle infiltrazioni malavitose nella giunta lombarda, si fantasticava che avrebbe usato per le pulizie un aspirapolvere industriale, invece si è ritenuto soddisfatto per la decisione di Formigoni di cambiare la giunta. Al posto di leghisti bossiani, ci saranno assessori maroniani. Abbiamo ottenuto quello che volevamo, dichiara l’ex Ministro. Poi La lega ha cambiato il parere di Maroni e ha staccato la spina a Formigoni. La poderosa Polverini ha coperto Roma di manifesti annuncianti l’aver mandato a casa i ladri e malfattori regionali, poi vorrebbe rimanere in carica fino ad aprile. Così i consiglieri di un consiglio sciolto continueranno a prendere le loro prebende. Deluso dalla delusione dell’ex suo fan, Matteo Renzi, l’uomo residente in Svizzera, stipendiato in Italia, amministratore della Fiat, Sergio Marchionne ha dichiarato che il concorrente di Bersani è un pessimo imitatore di Obama per giunta sindaco di una città  piccola e povera. Qualcuno deve avergli spiegato che definire Firenze in tal maniera dimostrava l’esigenza di qualche lettura in più da parte del genio dell’auto.Il Marchionne affannosamente precisa che Lui ama così tanto l’Italia da augurarsi un Monti Forever capo del governo. Il rapporto di Marchionne con il nostro Paese e con la democrazia è problematico. E forse abbisogna di qualche riflessione da parte di coloro che lo salutarono come il rinnovatore delle relazioni industriali. Che dire delle dichiarazioni di Cristine Lagarde, capo del fondo monetario internazionale? La leader del FMI ha dichiarato guerra alle politiche di austerità  imposte alla Grecia e adottate da tutti i governi dell’Europa comunitaria. Sono politiche sbagliate che aggravano la crisi. Chi ha imposto l’austerità ? La troika. Da chi è composta la troika? Da BCE, Commissione Europea e da FMI. Legittima l’indignazione di chi subisce l’austerità ? Forse l’indignazione comincia a non bastare più.
L’impressione che si può legittimamente avere è che le classi dirigenti sono in genere di una qualità  scadente in tutto il mondo. Certo però la nostra rasenta l’imbattibilità . Finalmente una commissione del Senato ha deliberato un testo di riforma della legge elettorale. Finalmente andremo oltre il “porcellum”? Andiamo oltre ma verso dove? Si torna alle preferenze ma un trenta per cento di candidati all’elezione sarà  in liste bloccate scelti ovviamente dalle oligarchie. La discussione sui sistemi elettorali è certamente interessante, ma necessita di andare oltre l’interesse di partito se si vuole una democrazia viva ed efficace. Può essere forte una democrazia dove sono in vigore diversi sistemi elettorali a seconda il tipo di elezione? Da noi vigono sistemi elettorali diversi per eleggere il sindaco, il presidente di provincia, il parlamentare, il parlamentare europeo e ogni singola regione elegge i suoi membri in maniera che può essere diversa. Una follia unica al mondo. Non sarebbe tempo di mettere ordine? Certo il presupposto è che i partiti trovino il modo di rifondarsi per svolgere il ruolo che la Costituzione assegna loro. La frenesia di questi anni di apportare modifiche alla Carta non potrebbe manifestarsi anche trovando il modo di far approvare in questa legislatura una legge sui partiti secondo i principi dell’articolo quarantanove della Costituzione? I partiti personali, liquidi, leggeri o di plastica di questi anni sono la causa principale della cattiva politica e della corruzione emersa grazie all’azione della magistratura. Non si tratta di mele marce. E’ tutto il sistema politico che deve essere rifondato. Quello che conosciamo non può che produrre le brutture che stanno massacrando la democrazia italiana. Bisogna fare scelte che rovesciano la filosofia prevalente di questi anni. La politica come mestiere non può che produrre una cattiva politica. Quando per divenire consigliere comunale s’investono decine di migliaia di euro in cene, santini, spot televisivi, c’è qualcosa che non va. Si può vivere per la politica. Quando si vuol vivere di politica, si può rischiare di divenire una mela marcia. Sbaglierò, ma da sempre sono convinto che la società  debba sopportare il costo di una democrazia che per vivere ha bisogno dei partiti. In tutto il mondo, la democrazia ha un costo sostenuto anche dal denaro pubblico. Con misura, però. Negli ultimi venti anni in Italia si sono fatte leggi sul finanziamento della politica assolutamente inaccettabili. Si è cominciato a ridimensionare, non basta. I partiti si devono principalmente autofinanziare con i contributi degli iscritti, degli elettori e degli eletti. Nessuno deve poter modificare il suo stato sociale facendo politica. La buona politica ti arricchisce culturalmente e umanamente. Quando l’arricchimento è di altra natura, cambia anche la qualità  della politica. Basta aprire un giornale e se ne ha la conferma.
Corriere dell’Umbria 14 ottobre 2012

Tra incertezze e delusioni

In gran parte delle democrazie occidentali il candidato a capo del governo è il leader del partito che vince le elezioni. Il leader in genere è eletto in un congresso. Questo vale per le democrazie parlamentari mentre per i Paesi a regime presidenzialista o semi-presidenzialista si procede attraverso il dispositivo delle primarie. Per la Francia il meccanismo è di recente utilizzo mentre per gli Stati Uniti si tratta di un metodo di lunga durata. Il primo Stato a utilizzarlo fu il South Carolina nel 1896. Negli Stati Uniti le primarie sono regolate da leggi dei diversi Stati, leggi che la Corte Suprema può accettare o modificare. Le regole sono diverse da Stato a Stato ma tutte hanno la costante dell’obbligo d’iscrizione alle liste elettorali e agli “albi” pubblici dei partiti. Gli storici concordano nel ritenere che le primarie fossero la scelta volta a combattere gli apparati dei partiti e la corruzione delle oligarchie politiche. Di fronte a formazioni dei partiti poco democratiche si dà  la parola agli elettori nella scelta dei candidati alle cariche pubbliche. Il partito democratico italiano ha, dalla sua fondazione, scelto le primarie come costante per decidere i propri candidati ad alcuni ruoli. Si è dato uno statuto che prevede che candidato a capo del governo, nelle primarie di coalizione, debba essere il segretario. Come succede spesso in questo pur decisivo partito, di la delle regole scritte, si procede per innovazioni incessanti. Continua a mancare un centro di gravità  permanente. Al momento non conosco il risultato dell’assemblea nazionale del PD convocata per modificare lo statuto allo scopo di consentire al sindaco Renzi di partecipare alle prossime mitiche primarie. Spero che tutto sia andato positivamente. La cosa ha del paradossale, comunque. Sono settimane, mesi ormai che il centrosinistra è in tormento perenne su una questione che potrebbe rivelarsi inutile. Non si conosce con quale legge elettorale si andrà  a votare. Incerte sono le alleanze e lo stesso centrosinistra non si sa più da quali forze sarà  composto. Programmi, idee, valori da sottoporre all’elettorato manco a parlarne. E tutto ciò in una situazione che giorno dopo giorno si fa sempre più incerta e drammatica per molti milioni di persone. L’esplodere della questione lavoro non significa soltanto altra disoccupazione ma segnala un’altra fase della deindustrializzazione del Paese. L’ondata di scandali, ruberie varie e di privilegi di casta, dovrebbe allarmare per lo stato della democrazia italiana. Il sono tutti uguali, quindi tutti a casa, non riguarda soltanto la chiacchiera da bar, ma è un sentimento che si fa strada in strati sempre più vasti di una popolazione sconfortata. Delusa da una politica che non riesce a compiere scelte che dimostrino un barlume di autoriforma. Deve essere gestita una contraddizione difficile da risolvere. Senza una politica al servizio della nazione e, quindi, diversa da quella che leggiamo sui giornali, non si esce dalla crisi. Una parte consistente, non tutti, di chi svolge un ruolo politico è incapace di guardare all’interesse generale preso com’è dalla protezione del proprio interesse personale. Si può pensare tutto il male possibile del governo dei tecnici, ma certo era un’occasione straordinaria per consentire ai partiti un’autoriforma che allontanasse il marcio che si è stratificato, a tutte le latitudini politiche, in questi anni di berlusconismo rampante. L’autoriforma non c’è stata e ancora una volta è l’azione della magistratura a far emergere corruzione e illegittimi privilegi. No. Non sono tutti uguali, ma anche chi ha taciuto per anni sul degrado d’istituzioni e delle forze politiche ha immense responsabilità . Si sono accorti solo ora che alcune Regioni hanno utilizzato l’autonomia per divenire “statarelli” con il proprio “governatore”? Nei miei viaggi non ho mai incontrato un’ambasciata dello Stato della California o della Baviera, ho visto in giro per il mondo le sedi di rappresentanza di Campania, Lombardia e via dicendo. L’ondata antiregionalista mischia cose giuste e cose sbagliate. Se è giusto voler ricondurre a sobrietà  queste istituzioni, è sbagliato considerare sprechi gli interventi regionali a vantaggio di manifestazioni culturali o di tutela di tradizioni popolari. La Regione dell’Umbria, ad esempio, è stata la fondatrice e ha sostenuto in parte finanziariamente, “Umbria Jazz”. Si poteva con qualche ragione sostenere che noi con il jazz c’entriamo poco. La storia però ci dice che quel festival ha consentito un ritorno economico e d’immagine mondiale di una regione insignificante dal punto di vista economico. E’ morto la scorsa settimana uno dei più famosi storici del mondo: Eric Hobsbawm. Lo storico inglese era un appassionato di jazz e ne ha scritta una storia. E’ un libro molto bello che, nella premessa, ricorda che il boom mondiale di questa musica, marginalizzata per tanto tempo, inizia con l’esplodere dei festival, tra questi Hobsbawm evidenzia “Umbria Jazz”. Che sarebbe la nostra comunità  senza i numerosi festival musicali o senza la straordinaria Festa dei Ceri di Gubbio? L’ideologia che vuole che tutto sia ricondotto al libero mercato, come tutte le ideologie, è fallace. La cultura è un bene da salvaguardare anche attraverso l’intervento pubblico. Un’amministrazione comunale o una Regione hanno la responsabilità  non solo della manutenzione delle strade o della sanità . Hanno anche quella di assicurare che le comunità  amministrate siano messe in grado di apprezzare la cultura locale, nazionale e mondiale. Le autonomie locali devono essere riformate ripristinando controlli e sobrietà , ma non ridotte a semplici terminali della spesa decisa dallo Stato centrale.
Corriere dell’Umbria 7 ottobre 2012

Le riforme mancate e i tecnici della salvezza

Sono sempre stato convinto che la riforma regionale del 1970 sia stata una delle tante riforme mancate. Occorrerebbe un saggio per approfondire l’argomento, ma già  tanti studiosi hanno dimostrato quanto detto sopra. Basta ricordare come i nuovi enti nacquero completamente squilibrati nelle risorse e nelle competenze. Quando un bilancio è formato da una spesa vincolata per oltre il settanta percento per l’assistenza e la sanità , non poteva che essere difficile organizzare una comunità . Le regioni rischiavano di essere soltanto una grande ASL. Avvenne che alcuni dei presidenti di quella stagione Bassetti, Fanti, Lagorio e Pietro Conti, assieme a consigli e giunte adeguati, utilizzarono ogni spazio politico per migliorare la mediocre riforma. Riuscirono a strappare, attraverso una dura battaglia politica dentro i partiti di allora, competenze aggiuntive. Successivamente, per le regioni che furono capaci di progettare con intelligenza, la sponda delle risorse della comunità  europea consentì una creatività  amministrativa e una programmazione regionale che in molte parti del Paese, compresa l’Umbria, è stata per lungo tempo efficace. Per molte ragioni l’attività  legislativa regionale non è stata di grande qualità : il potere legislativo vero era rimasto a Roma. Comunque il ceto politico decentrato andava via, via assumendo rilievo e importanza. I leader romani avevano bisogno dell’appoggio dei vari “feudatari” regionali. Il nuovo che avanzava richiedeva anche la formazione di un ceto politico organizzato in team di vassalli e valvassori legati al territorio. Inseguendo il federalismo alla padana, il centrosinistra al termine di una legislatura travagliata, nel 2001, fece approvare la riforma del Titolo Quinto della Costituzione con una maggioranza di due voti. Una boiata pazzesca direbbe Fantozzi, non solo perchè nella riforma costituzionale è prevista l’elezione diretta del presidente della giunta, argomento almeno controverso in una repubblica che rimane parlamentare e non presidenzialista, ma a prescindere da questo non secondario problema si prevede un livello di autonomia dell’ente, esorbitante. Soltanto essendo responsabili sia delle spese sia delle entrate si può essere autonomi nell’interesse generale. Dovrebbero essere chiare le competenze regionali rispetto allo Stato e agli altri organi pubblici locali e/o nazionali. E’ così in tutte le nazioni a struttura federale. In Italia, essendo quella regionale una finanza derivata, l’amministratore può esclusivamente scegliere come spendere una parte, secondaria, del bilancio annuale e trattare con il governo centrale il trasferimento dei fondi con forme di controllo “a posteriori” che fino a poche settimane fa non hanno dato risultati apprezzabili. Scomparso il commissario di governo che controllava con durezza ogni delibera di giunta, soltanto la Corte dei Conti a cose fatte è chiamata a un controllo della spesa. Qualche perplessità  viene naturale di fronte a quanto sta emergendo in tante regioni italiane. Mettendo da parte, e non è facile, le cialtronerie e le ruberie legalizzate di tanti consiglieri di ogni latitudine, viene spontaneo il dubbio che pochi in questi anni hanno analizzato il funzionamento “normale” delle regioni dopo la geniale riforma della Costituzione. Con lo scudo dell’autonomia statutaria, in molte regioni si è andati all’assalto della diligenza della spesa pubblica. Vertiginoso è stato l’aumento di chi vive con un qualche incarico politico. C’è un problema? Un’emergenza? Si costituisce un ente, con conseguente consiglio di amministrazione e presidente ben pagato. Giunte pletoriche e nonostante lo svuotamento dei poteri delle assemblee, consigli regionali elefantiaci. Queste le costanti dell’attività  regionale in molte aree del Paese. Perchè è esplosa negli anni l’ipertrofia del costo per il funzionamento della politica? Non sarà  la conseguenza della personalizzazione della politica stessa? Leader, leaderini e mezze tacche hanno bisogno di manifesti, di spot televisivi, di cene conviviali per assicurarsi il consenso per un seggio, un seggiolino, uno strapuntino nella struttura pubblica. Non in tutte le regioni è andata così, per fortuna. Ci sono aree in cui i bilanci sono in ordine e le comunità  sono civilmente amministrate da un ceto politico di livello apprezzabile. In certi casi, indennità  e benefit di presidenti o consiglieri non dovrebbero suscitare scandalo, ma l’ondata iniziata nel Lazio della Polverini sta provocando un’indignazione popolare che tende a coinvolgere tutto e tutti. La destra politica utilizza la tesi di craxiana memoria del “siamo tutti uguali”. Il centrosinistra deve rispondere del proprio silenzio rispetto a quanto succedeva da anni in alcune regioni. Anche tra il ceto politico di centrosinistra non mancano episodi di sgradevole boria e arroganza di tanti addetti ai lavori. Le carriere infinite non sono un’esclusiva dei berluscones e la sobrietà  non sembra a molti una qualità  ma il retaggio di un agire politico troppo antico. Che la conferenza dei presidenti di regione chieda al governo centrale d’intervenire con decreto per eliminare sprechi e disparità  provocate dalle scelte dei consigli e delle giunte regionali, è paradossale ma comprensibile. Non tutte le regioni sono in grado di autoriformarsi e in uno stato d’eccezione come l’attuale l’intervento del governo dei tecnici appare l’unica salvezza. Lo stato d’eccezione sarà  la nostra condizione per lungo tempo? Sembrerebbe di sì. La disponibilità  di Mario Monti a una conferma nell’incarico anche dopo le prossime elezioni ha scompaginato i programmi delle forze politiche. Paradossalmente è quel che resta del PDL che potrebbe trarre vantaggio dalla scelta montiana. Partito in liquidazione coatta potrà  sempre propagandare che al governo rimarrà  un liberista di provata fede che non ha mai rimproverato al Cavaliere le sue scadenti performance governative.
Corriere dell’Umbria 30 settembre 2012

Turreno, è finita una storia

Non esistono scorciatoie e le semplificazioni non servono. Il problema è come approfondire la conoscenza dei processi economici, sociali e culturali che hanno determinato lo stato del centro storico di Perugia. Forse più corretto sarebbe parlare dei problemi della città vecchia intesa come quel complesso dei borghi che supportano il centro. Con un’avvertenza: lo svuotamento dei centri storici è stato un lungo processo che ha riguardato gran parte dell’Italia e dell’Europa. Il modello di sviluppo incentrato sul trasporto privato e sulle aree “dedicate”, ha comportato una crescita che, anche quando non caotica (e non è il caso di Perugia), assegna ai centri storici principalmente la funzione di attrazione turistica e di “vetrine” commerciali per i grandi gruppi dell’industria della moda e di altri settori dell’economia di valenza nazionale o internazionale. Spazi per il piccolo commercio nelle aree pregiate della città ne rimangono pochi. Anche senza avere nessun pregiudizio ideologico, e non è il mio caso, nei confronti della rendita immobiliare non si può non intuire che il costo degli affitti per un’attività commerciale nella così detta acropoli, è tale da rendere problematica la sopravvivenza di chi non è in franchising. Una banale passeggiata per le strade che si congiungono a Corso Vannucci, e si ha l’impressione dell’impoverimento delle attività. Gli esperti pensano che il mercato sarà in grado di aggiustare il tutto: abbassandosi la domanda, il costo degli affitti si adeguerà. E’ possibile. Da molti anni, però, la quantità di locali vuoti è in aumento e i rentier non sembrano seguire le “leggi” del mercato. Di certo una questione di costo degli affitti c’è, ma non è l’unico problema. Un compagno carissimo, mi ha detto che in Porta Sant’Angelo vivono trentasei famiglie e il resto delle abitazioni o vuote o occupate da qualche studente italiano o straniero. Nella mia giovinezza in Corso Garibaldi i bambini erano così numerosi che si confrontavano due squadre di calcio giovanili e le strade erano piene delle loro grida. C’erano le sedi di diversi partiti e alla messa di Sant’Agostino, la domenica, i fedeli riempivano ogni spazio della chiesa. Nell’area del Carmine, Via della Viola, ecc., nonostante lo sforzo di giovani imprenditori che hanno aperto bar e ristoranti, continua l’esodo di abitanti. Anche l’ultimo fruttivendolo ha chiuso. Abbiamo appreso di un piano per il rilancio del centro che affronta dal punto di vista commerciale la questione. Annunciata la possibilità di trasformare il Cinema Turreno anche in un’area di commercio e si rende possibile l’apertura di spazi per nuove attività di vendita di abbigliamento in altre aree del centro. Si crede che il problema centrale sia l’offerta commerciale? Non sono un esperto, lo riconosco, domando a chi esperto è: perché il supermercato “storico”, il mercato coperto, non ha avuto successo e i diversi progetti di ristrutturazione non hanno avuto fortuna? Non sarà che il problema decisivo, anche per le attività di commercio, sia stato l’esodo di abitanti e di tutti i centri direzionali dall’acropoli? Senza una comunità che abita nei borghi e nella città “vecchia”, non servono a nulla né gli eventi né favorire l’arrivo di nuovi loghi al centro di Perugia. Intendiamoci. Molte delle iniziative culturali portate avanti dalle amministrazioni pubbliche o dalla vivace rete di organizzazioni culturali private, sono di eccellente qualità. Ma ciò se è molto apprezzabile, non è sufficiente. La stessa proposta commerciale del centro storico può essere riqualificata. Ma come? Potete immaginare un’abitante di Madonna Alta che viene a fare la spesa all’ex Cinema Turreno per acquistare gli stessi prodotti che si possono trovare nei cento supermercati sparsi da Bastia a Corciano? Senza una politica amministrativa di lungo respiro che consenta il ritorno di residenti, non c’è speranza d’invertire la tendenza al degrado. Una settimana fa è stato chiuso uno dei caffè storici di Perugia, il Caffè Turreno. E’ stato detto che si tratta di un’attività imprenditoriale che è andata male. Peccato. Per me, che ho frequentato quel luogo per cinquantadue anni, la cosa ha altro significato. Non sono il solo: chi pensa che il futuro di una comunità si costruisca anche attraverso la difesa dei luoghi della memoria collettiva, ritiene che la chiusura del Turreno non sia soltanto il fallimento di un’attività commerciale. Quel luogo rimanda a una storia della vita democratica della città che è sbagliato ricondurre alla sola sinistra comunista. In quel caffè ho incontrato cattolici e socialisti, ma anche chi non aveva alcuna affinità politica con i “rossi” trovava il modo di dare un consiglio, di suggerire un libro da leggere o di avvertire sulle cose sbagliate che la sinistra faceva. Renato Locchi ha ragione nel ricordare come fosse naturale interloquire con un grande intellettuale o offrire da bere al “capo” venuto da Roma. Quando Michele Gargiulo, il vecchio proprietario, ti guardava con rimprovero per un atteggiamento settario, abbassavi gli occhi e chiedevi scusa. Mario, il figlio, era il primo a leggere l’Unità, così sapevi subito qual’era la linea del partito. Quando arrivava Ilvano Rasimelli o Gino Galli, ascoltavi le loro argomentazioni e/o i loro scontri sulla “linea” di Togliatti o Berlinguer. Nelle tenzoni del sessantotto la cosa più normale era un tavolo dove sedeva un dirigente del PCI, un’extraparlamentare e un cattolico del dissenso che discutevano animatamente ma con il massimo rispetto. L’anarchico Brenno Tilli, una delle figure più creative di Perugia, fu convinto a votare per la prima volta nel 1970. Si votava per il primo consiglio regionale. Si poteva contribuire a eleggere Pietro Conti a presidente. Il nostro entusiasmo trascinò al voto anche il vecchio anarchico. Il primo luogo dove portavi il figlio era il Caffè Turreno. Un gelato da Michele era garantito. Episodi, piccole storie forse. La nostalgia è un fatto personale, ma quando Vittorio Gargiulio mi ha informato della chiusura, ho sentito che una storia era finita. Non sempre il nuovo che avanza è migliore del passato. Per questo la nostalgia diviene a volte una salutare medicina.
Corriere dell’Umbria 23 settembre 2012