Un Paese in apnea

Un vecchio industriale perugino mi ha offerto un aperitivo. Voleva sfogarsi per la situazione del Paese. Angosciato per le prospettive mi ha detto con tristezza: ” In ogni classifica internazionale l’Italia è sempre all’ultimo posto. E’ un’immagine inconcepibile per un Paese che è stato nei decenni passati in tanti campi leader indiscusso. Sono vecchio e non ho preoccupazioni personali. Ma i miei figli? I miei nipoti in quale società  vivranno? Berlusconi, non ha fatto nulla per affrontare la crisi ed è quello che è, ma dall’altra parte c’è il nulla, il vuoto assoluto. Meglio che rimanga il Cavaliere perchè è meglio del nulla”. Conoscendo le qualità  democratiche e il valore imprenditoriale dell’interlocutore, non potevo far finta di non capire. Balbettando qualche banale difesa del centrosinistra ho cercato di rincuorarlo, ma gli argomenti erano fragili, poco convincenti. Non me la sono cavata bene, ma qualche motivo a giustificazione della mia insufficienza credo di averlo. Il quadro politico del dopo agosto ha qualcosa di surreale. Il centrodestra è messo malissimo. Grazie alla legge elettorale truffaldina Berlusconi aveva una maggioranza parlamentare schiacciante. In due anni questa maggioranza si è spappolata per l’incapacità  del leader di affrontare altri problemi che non siano i suoi processi. Un Paese bloccato prima dalla discussione sulle intercettazioni, poi dal processo breve, poi dalla legge sul legittimo impedimento. Nel frattempo non c’è settore della società  che non è in apnea per la mancanza di provvedimenti governativi adeguati alla crisi. O meglio gli unici interventi sono stati quelli del blocco dei salari del pubblico impiego e dei tagli a scuola, trasporti, sanità  pubblica. Un tempo si sarebbe detto che il centrosinistra avrebbe una prateria per affermare una nuova idea dello sviluppo del Paese. Invece ogni pezzo del centro sinistra appare rinchiuso nel proprio orto o orticello. C’è qualcuno che può legittimamente sostenere che il gruppo dirigente del PD ha la stessa idea su una singola questione? Che la legge elettorale sia rivoltante è certo come è certo che nel PD non si è avuto ancora il tempo, in quattro anni, di presentare una proposta alternativa perchè i vari inossidabili dirigenti del partito a vocazione maggioritaria non si mettono d’accordo. Soltanto il presidente della regione Toscana ha il coraggio di fare autocritica impegnandosi a modificare la legge elettorale toscana superando liste bloccate, listini e abnormi premi di maggioranza. La Fiat vuole unilateralmente modificare la contrattazione? Nel PD i tifosi di Marchionne impongono il silenzio stampa. Soltanto balbettii che non convincono nè gli operai nè i fautori dell’affermarsi del modo di produzione asiatico anche in Italia.
Di fronte alle esternazioni estere di Berlusconi si usa lo stesso ritornello. Che brutta figura per l’Italia! Argomento serio ma insufficiente a far capire al popolo il rischio che sta correndo la democrazia italiana. Trovo scontato l’attacco di Berlusconi alla magistratura. Illegittimo ma coerente con la visione padronale del nostro. Ma è più allarmante la tenacia con cui il capo del governo, in ogni sede, prospetta un modello di democrazia che ricorda quello delle democrazie popolari simil Bulgaria o Romania dei tempi di Ceausescu. Non è casuale che Berlusconi abbia dichiarato che Putin sia “un dono di dio” per la Russia. Il modello di governo imposto dall’ex uomo del Kgb ai popoli russi è lo stesso che ha in testa l’uomo di Arcore. Parlamento senza alcun potere, magistratura sottoposta al potere politico, sistema informativo silenziato. Berlusconi è veramente convinto che tutto ciò vada bene anche in Italia. Ha iniziato imponendo un parlamento di nominati, proseguendo con gli attacchi al potere giudiziario e mettendo i vari Minzolini nei gangli del sistema della comunicazione. I fautori delle riforme bipartisan hanno consapevolezza di ciò che ha in testa la destra populista?
Forse è necessario che il partito di opposizione più importante faccia il suo dovere ad iniziare a darsi un’idea di Paese alternativa a quella della destra. Invece si ragiona soltanto in termini di sigle da aggregare o rifiutare nello schieramento alternativo al berlusconismo. Una parte del PD vorrebbe imporre una specie di diga a tutto ciò che appare di sinistra. Si continua con la solita banalità  per cui le elezioni si vincono al centro e si considerano ininfluenti i milioni di elettori che continuano a considerare la sinistra come un’opzione legittima e importante.
Domanda: c’è qualcuno nel PD che ha analizzato e studiato i flussi elettorali e la motivazione dell’esplodere delle astensioni? Ad ascoltarli, studiare non sembra più necessario nemmeno ai politici. Se lo facessero scoprirebbero cose interessanti. Ad esempio capirebbero che il giudizio terrificante sulla casta non riguarda soltanto gli uomini e le donne del centrodestra, ma coinvolge gran parte del ceto politico e amministrativo in campo. Il sono tutti uguali ha fatto strada nella testa della gente perchè le ottime persone che si occupano di politica, e ce ne sono molte, non riescono a svolgere il loro ruolo in un mondo in cui conta più l’appoggio del feudatario che le idee e il lavoro di cui si è portatori. Adeguarsi è troppo spesso la sola strada aperta per continuare nel lavoro politico-amministrativo. Sommessamente un consiglio agli addetti ai lavori. Le elezioni sono state spostate almeno alla prossima primavera. C’è il tempo per costruire una piattaforma politica alternativa al berlusconismo. Bisogna farlo in un rapporto stretto con il popolo, con le culture, le intelligenze e la creatività  di cui è ancora ricca la democrazia italiana. Nonostante le brutture di questi anni ci sono ancora uomini e donne che hanno la cultura, la passione e l’intelligenza per bloccare la decadenza del Paese. Berlusconi sostiene di essere stato eletto dalla maggioranza del popolo. Non è vero. La maggioranza del popolo non ha votato per il presidente del Milan e non saranno Ibra o Robinho a garantire la vittoria nella futura tenzone.

Coerenze necessarie

Il presidente della regione Toscana ha annunciato che la legge elettorale che regolamenta le elezioni in quella regione, sarà  modificata radicalmente. Perchè? Semplice. La famosa legge “porcellum” voluta nel 2006 da Berlusconi e dalla destra, è figlia legittima della legge toscana. Lo scandalo provocato in questi anni dalla pessima legge è dovuto, come è noto, ai meccanismi che provocano l’espropriazione del diritto dell’elettore a scegliere i propri rappresentanti in parlamento e, attraverso il premio di maggioranza, a rendere la volontà  popolare falsificata. Per rendere lo scandalo accettabile è tempo che anche le leggi elettorali di quella stagione deleteria vengano rese coerenti con il dettato costituzionale. Listini, liste bloccate e premi di maggioranza non lo sono. La cosa riguarda la Toscana, ma anche la mia amata Umbria. Soltanto pochi mesi prima le ultime elezioni il consiglio regionale con voto bipartisan votò una legge che prevede listino e premio di maggioranza. Scandalo diffuso anche a queste latitudini. Speriamo che anche Catiuscia Marini annunci le modifiche alla legge elettorale vigente in Umbria che, come è noto, se ha salvaguardato un pezzo di casta non è apprezzata da molti in nome della democrazia costituzionale.

Barbarie e bugie

Nella vita, come in politica si possono subire sconfitte, arretramenti nella possibilità  di ottenere ciò che si vorrebbe. E’ sempre successo e sempre succederà . Ciò che risulta intollerabile è quando il vincitore pro tempore pretende di convincerti che il suo successo sia cosa buona anche per te che hai perso o che la tua sconfitta non sia dovuta a rapporti di forza squilibrati, ma alla tua incapacità  di capire la modernità . Ad esempio la scelta della Fiat di produrre i nuovi modelli di auto in Serbia è motivata dal dottor Marchionne con la scarsa serietà  dei sindacati italiani. Anche se sulla serietà  di alcuni sindacati si può discutere, il dottor Marchionne ha detto una falsità  rispetto ai motivi della scelta. Infatti, il management serbo, ovviamente soddisfatto, ha dichiarato: ” la decisione di Fiat di produrre qui questi 2 nuovi modelli conferma che vengono applicati tutti gli accordi stipulati con i partner italiani”. A quando risalgono gli accordi? Al dicembre 2009. Non è serio mistificare quando di mezzo c’è la vita di intere comunità  come quelle che ruotano attorno a Mirafiori. Galattica, poi, l’affermazione berlusconiana per cui le imprese hanno il diritto di localizzarsi dove vogliono, basta che non lo facciano a discapito dell’Italia. Appare come un pensiero erudito e profondo espresso da un turista che, non avendo alcun potere d’intervento, inneggia alla libertà  di mercato contro il dirigismo comunista.
Potete immaginare quello che sarebbe successo in Francia se la Citroen o la Renault ipotizzassero, dopo tutti i soldi presi dallo Stato francese, una diversa location per i propri stabilimenti? Ma come è noto all’Eliseo regna un vetero comunista.
E’ la serietà  che manca alla politica italiana e in genere ad una parte significativa della classe dirigente del Paese. Non sembra che si abbia la consapevolezza di quanti rischi stiamo correndo se non si riesce ad invertire la tendenza al deterioramento economico, sociale, morale della nostra terra. Vale anche per l’Umbria questa sorta di imbarbarimento del confronto politico? Negarlo sarebbe difficile. Martedì c’è stata la cerimonia per i quaranta anni di istituzione della regione. Evento che voleva significare anche il tentativo di un bilancio storico e, al di là  della legittima commozione di tanti, poteva rappresentare uno stimolo a rendere più civile il confronto politico. Non è andata così.
Venerdì si è svolto un consiglio regionale con all’ordine del giorno la situazione dell’Ente dopo i provvedimenti governativi di taglio dei trasferimenti finanziari. Il centrodestra non ha voluto partecipare ed a preferito svolgere una conferenza stampa per dire ciò che pensa della condizione economica e finanziaria dell’istituto che dovrebbe contribuire a far funzionare pur nel ruolo di opposizione.
Non spetta a me esprimere valutazioni rispetto al modo e ai tempi decisi per la discussione. Rimango però colpito da alcune affermazioni rispetto ai motivi delle difficoltà  che le comunità  amministrate hanno da affrontare. Un consigliere leghista ha sostenuto che tutto dipende dal disastro provocato, nei quaranta anni trascorsi, dalle amministrazioni di centrosinistra. Scompare in questa visione apocalittica ogni riferimento ai processi indotti dalle ripetute crisi degli assetti mondiali, dalla marginalità  dell’Umbria rispetto alle scelte dei governi nazionali. Ma principalmente non si riconosce la qualità  dell’avanzamento dell’Umbria nella sua struttura economico-sociale e culturale. Portare l’Alta Valle del Tevere come esempio di arretratezza economica è una sciocchezza che offende una classe dirigente che ha saputo, nel dopoguerra, costruire un assetto sociale molto avanzato e moderno. Gentile novello consigliere, se ci fosse stato a guidare la regione il prode Calderoli o se il raffinato figlio di Bossi fosse stato sindaco di Città  di Castello, oggi non avremmo alcun problema?
Il settarismo, di ogni colore, rende ciechi e la cecità  non aiuta a capire ciò che è necessario mettere in campo per affrontare una crisi che ha origini complesse che richiede una sorta di rifondazione dello Stato nelle sue articolazioni centrali e territoriali. Anche per l’Umbria si pone il problema di come ripensarsi e non solo per affrontare i pesanti tagli imposti da Tremonti ai bilanci regionali e comunali.
Riformare, riformar bisogna se si vuole salvaguardare una tenuta sociale che è anche dovuta ad una spesa pubblica molto consistente che non sarà  possibile preservare, ma che in un processo di profonda riconversione può continuare a produrre risultati adeguati alla bisogna.
Il centrodestra umbro non può nascondersi il fatto che tutte le regioni e l’ANCI hanno dichiarato il proprio disaccordo per la manovra finanziaria del governo centrale. Colpevolizzare la presidente Marini non sembrerebbe cosa utilissima per risolvere i problemi di bilancio dovuti a decisioni prese a Roma.
Non si può non considerare che, per esempio, servizi primari come i trasporti o l’edilizia popolare non hanno più finanziamento e che la scelta è la soppressione dell’attività  o l’introduzione di nuovi balzelli.
Il centrosinistra non può non considerare che la protesta delle regioni e dei comuni assumerà  rilievo e sarà  compresa dalla cittadinanza, se la lotta agli sprechi sarà  una priorità  nell’attività  amministrativa. Non sarà  facile e sarebbe auspicabile che il consiglio regionale tornasse ad essere un centro di discussione e di democrazia formale che ha come zenit l’interesse generale.
Continuare a non vedere che il rischio che stiamo correndo è quello del consolidamento di un muro di cemento armato che separa la politica e la sua classe dirigente dalla popolazione è cosa grave a cui bisogna porre rimedio. Ciò spetta a tutti coloro che continuano a scommettere sulla buona politica come medicina essenziale per curare il Paese.

L’interesse generale

Quarant’anni da quel 20 luglio del 1970 quando si riunirono i trenta consiglieri regionali che avrebbero iniziato la costruzione dell’istituto regionale, sono una ricorrenza che sollecita qualche riflessione politica. Saranno gli storici, con maggior dottrina, a precisare il significato e il ruolo che l’ente regione ha avuto nella crescita della nostra comunità  ma la storia è anche costruita attraverso le esperienze delle persone. Ecco la mia. Quel 20 luglio ero tra quei trenta eletti all’assemblea regionale e, come consigliere giovane, fui segretario nella prima seduta.
Ho nitido il ricordo di una Sala dei Notari gremita di popolo e di una classe dirigente che esprimeva collettivamente una forte tensione civile. Colma di grandi speranze la Sala dei Notari esprimeva una composta allegria. Non c’era alcun burocratismo. Piuttosto si svolse una sorta di rito liberatorio pieno di fiducia. La cerimonia aveva come protagonisti coloro che già  rappresentavano i legittimi interessi di forze sociali e dell’Umbria delle cento città , i rappresentanti del governo centrale e i sindaci delle città . I sindaci. A quei tempi non erano eletti direttamente ma furono capaci, negli anni delle grandi emigrazioni degli umbri nel mondo, a organizzare una lunga lotta di resistenza al degrado delle città  svuotate dalle forze migliori. Chi ha una certa età  ricorda con angoscia la povertà  di tante città  umbre fino agli anni sessanta. Oggi Spoleto, Gubbio o i comuni del Trasimeno sono gioielli di straordinaria bellezza. E’ l’intera Umbria che viene vissuta dai visitatori come terra di civiltà , nonostante che sbreghi e brutture non manchino. Il vivere in Umbria può essere attraente. Questo processo di emancipazione dalla miseria non è stato un regalo della provvidenza. Decisivo è stato il lavoro dei sindaci di quegli anni. Espressione diretta del mondo contadino, delle fabbriche, delle professioni o dell’intellettualità , i sindaci furono veri capi popolo capaci di organizzare nella sobrietà  e nel rigore le forze per costruire un nuovo sviluppo. La coreografia della Sala Notari era semplice: non esprimeva altro che la soddisfazione per il raggiungimento di un obbiettivo voluto dal popolo. Negli anni cinquanta e sessanta, in Umbria più che da altre parti, tra gli slogan delle grandi manifestazioni popolari, ce ne era uno che rivendicava l’istituzione della regione. Come esigenza di autogoverno come metodo di costruzione della società  post bellica la regione era considerato il necessario strumento per superare l’indifferenza dei governi centrali verso una terra considerata marginale.
Le regioni furono istituite con venti anni di ritardo. Grazie alla straordinaria stagione riformatrice frutto delle lotte degli anni sessanta, alla fine la Costituzione fu applicata. Altro che il chiacchiericcio di questi anni sulle riforme istituzionali. L’elenco delle riforme prodotte negli anni sessanta sarebbe lunghissimo. Basta ricordare l’inizio della costruzione del welfare, la riforma sanitaria, lo statuto dei diritti dei lavoratori, il diritto ad una formazione scolastica di massa.
Una stagione riformatrice che i novelli riformisti dovrebbero studiare con attenzione per capire ciò che è necessario fare per portare fuori dal pantano l’Italia.
Nessuno dei partiti componenti la prima assemblea regionale sono presenti nell’attuale fase politica. O meglio sussistono alcune sigle che richiamano i vecchi partiti. Ma sono sigle che non esprimono significativi consensi elettorali e comunque sono altra cosa rispetto a quelli passati.
La cerimonia per l’anniversario dei quaranta anni di vita regionale si svolgerà  alla Sala dei Notari martedì prossimo e sarà  interessante ascoltare gli interventi. Tra i relatori è stato scelto, giustamente, Vinicio Baldelli. Sono molti anni che non ci vediamo eppure in me permane un sentimento di riconoscenza nei confronti di questo gentiluomo. Democristiano integerrimo era vice presidente della prima commissione, quella per il bilancio e gli affari istituzionali. Come assessore al bilancio dovevo relazionare e, spesso, entrare in discussione con Baldelli. In sincerità  all’inizio del mio mandato non riuscivo sempre a reggere alle critiche della minoranza. Una questione di conoscenza dovuta all’impreparazione del sottoscritto, ma anche a difficoltà  oggettive del quadro finanziario dell’ente regione. Sarebbe stato nelle cose che l’opposizione approfittasse dei limiti di un giovane in formazione. Non fu così. Prevalse in Baldelli l’interesse generale. Così, con cautela e tranquillità , il democristiano cercò di insegnare al giovane assessore comunista i meccanismi del bilancio. Ciò che contava per Baldelli era la qualità  dell’istituzione. L’interesse non fu quello di mettere in difficoltà  l’assessore, ma quello di contribuire a far funzionare meglio l’ente regione. L’assessore doveva conoscere nell’interesse di tutti come gestire un bilancio pubblico. Sembra una favoletta eppure in quei tempi di aspre tensioni tra i partiti, il dovere che i dirigenti di partito insegnavano a tutti coloro che gestivano la cosa pubblica era quello di guardare all’interesse generale e non al tornaconto di parte.
A guardare al pantano della politica attuale un battito d’ali di nostalgia è legittimo, ma lo superiamo subito augurando ai nuovi consiglieri ogni successo nel costruire la regione federale. Qualche dubbio al riguardo è legittimo considerando la storia del regionalismo. L’istituzione delle regioni fu una riforma mancata. Una delle tante, ma la più grave nelle sue conseguenze. Si mancò l’occasione del mutamento radicale nel funzionamento dello Stato e presto il morto si riprese il vivo, il centralismo tornò a trionfare e le regioni si trasformarono (non tutte in verità ) in enti burocratici piuttosto che in strumenti di partecipazione e d’innovazione democratica. Difficile pensare che il federalismo immaginato dai leghisti possa costituire una speranza di riforma democratica dello Stato. L’ideologia dell’egoismo proprietario o di area geografica, non sono viatici seducenti per coloro che amano la democrazia organizzata. Possono provocare catastrofi.

Pagherete tutto

Il rischio che corre ogni opinionista politico è quello di diventare un disco rotto che ripete, commento dopo commento, le stesse cose da quindici anni. Colpa di una transizione infinita e di una politica che esterna molto senza nulla dire. Domande. Il Paese Italia è alla deriva per responsabilità  delle sue classi dirigenti oppure siamo, al di là  della particolarità  italiana, soltanto, all’interno di una crisi mondiale che ha modificato alla radice le prospettive di sviluppo di tutto l’Occidente? Propendo per rispondere positivamente a tutti e due i quesiti. Che ci sia un problema di classe dirigente in Italia mi sembra evidente. Anche se un’ora davanti alla TV ad ascoltare dichiarazioni di politici, imprenditori, intellettuali trendy, opinion maker del “sì, ma”, è sufficiente a risolvere l’interrogativo, non bisogna essere provinciali. Le banalità  non sono prerogativa italiana. Infatti, è anche vero che, a parte qualche lodevole eccezione, in tutti i Paesi un problema di qualità  del ceto dirigente esiste da anni a segnalare una crisi della politica in tutte le democrazie occidentali.
Pensare che, nel bene o nel male, tutto dipenda da Berlusconi mi sembra una scorciatoia a giustificazione dell’incapacità  di molti suoi competitor di dare una prospettiva politica e sociale all’Italia.
Dopo aver cantato, per una ventina d’anni, le magnifiche sorti del nuovo che avanzava come esigenza dell’evoluzione della democrazia post-partiti di massa, ci ritroviamo con una sinistra e un centrosinistra che balbettano. Ancora incapaci di capire quale è la domanda pressante che viene dal popolo, pensano che la soluzione possa venire dalle indecenze giornaliere dei vari sottopanza di Berlusconi. Travolti dal berlusconismo, non sanno bene cosa fare di fronte all’evidente crisi della destra al governo. Non vengono vissuti come un’alternativa. Perchè?
La crisi non è una maledizione divina. Essa ha origine dal dominio dell’ideologia liberista e dalle sue conseguenze economiche, sociali e politiche nei processi di globalizzazione. In Italia interprete sommo di questa ideologia è stato Berlusconi, coprotagonisti molti uomini e donne della destra ma il centrosinistra non è stato in grado di rappresentare un’altra idea del futuro del Paese anche perchè affascinati dalla modernità  del liberismo. Così coloro che hanno portato al disastro economico attuale sono gli stessi che continuano a gestire il nostro futuro con le stesse iniquità  del passato. La crisi la pagheranno i soliti noti. I precettori di rendite finanziarie, i grandi patrimoni, gli evasori fiscali non cacceranno un Euro.
Se è stata sufficiente una telefonata della Marcegaglia per indurre Tremonti e Berlusconi a risolvere i problemi che la finanziaria poneva alla Confindustria, non sono bastati giorni e giorni di proteste della Conferenza dei presidenti di regione per convincere il governo a riflettere sulla impossibilità  di amministrare con i tagli previsti dal decreto su cui Berlusconi ha posto la fiducia. Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, assicura il presidente del consiglio. Una falsità . In realtà  nei due anni passati la pressione fiscale è aumentata e l’accordo del governo con i comuni e province, è avvenuto con la promessa di una tassa unica municipale. Una furbizia. La nuova tassa sostituirà  l’abolizione dell’ICI., abolizione che consentì la vittoria della destra nelle passate elezioni. Chiamparino, efficiente sindaco di Torino, nel presentare l’accordo ha assicurato che la nuova tassa sarà  ad invarianza di pressione fiscale. Un giorno capiremo cosa voglia significare questa invarianza promessa da Chiamparino. Nel frattempo che succederà  alla sanità  e ai trasporti pubblici?
I presidenti di regione hanno deciso che restituiranno le deleghe allo Stato per tutti quelle competenze che non potranno essere svolte dopo le decurtazioni previste. Scelta grave che segna un altro salto nella crisi istituzionale del Paese. Aspettiamo nuovi balzelli e nuove inefficienze nella gestione dei servizi sanitari e di mobilità . Il percorso tutto ideologico della destrutturazione di ciò che resta del welfare sarà  accelerato. Se nella scuola diminuiscono gli insegnanti di matematica e aumentano quelli di religione, nella sanità  si allungheranno le file negli ospedali pubblici e si ridurranno quelle delle strutture private. Il diritto alla salute sancito dalla Costituzione, sarà  esercitabile con la carta di credito per chi la possiede.
Che il debito pubblico sia un problema è innegabile. La questione è come affrontarlo, con quali scelte. Quelle che segnano la manovra del governo della destra scaricano tutto l’onere sugli stessi ceti che hanno visto ridotti i propri redditi mentre la parte sostanziale della ricchezza privata rimane intonsa. Di ben altro si sentiva la necessità . Gli stipendi italiani sono superiori soltanto a quelli della Grecia e del Portogallo. La spesa sociale è tra le più basse d’Europa. I servizi alle imprese sono assolutamente insufficienti ad assicurare uno sviluppo certo in un mondo globalizzato. Se ci fosse una classe dirigente degna di questo nome ben altre scelte potrebbero essere fatte nell’interesse generale.
Purtroppo prevale l’interesse personale e di casta così che, anche le energie migliori del Paese, vengono fagocitate dal disastro.
Disastro è definizione forte. Ma quale altra definizione usare di fronte al fatto di venerdì? In un Paese dell’Occidente si è svolto, per la prima volta nella storia in queste dimensioni, uno sciopero dei giornalisti non per il contratto di lavoro, ma in difesa della libertà  di stampa? Non è questione di destra o di sinistra. Una lotta in difesa della libertà  di informazione segnala gravemente un problema democratico. Una forzatura degli estremisti? Non credo. Nelle graduatorie mondiali l’Italia è al settantatreesimo posto in tema di libertà  di stampa. Subito prima del Gabon, credo.

Galleggiare tra le meraviglie

Perchè meravigliarsi? I giovani che domenica scorsa, alla manifestazione del PD, hanno provato disagio sentendosi chiamare compagni, riflettono benissimo la natura del partito democratico. Una formazione politica che, ad anni dalla sua nascita, non sa che pesce sia nè quali possono essere le sue radici culturali e storiche. E’ abbastanza risibile che con una situazione grave quale quella che vive il Paese, il partito di opposizione con maggior forza elettorale, affronti una discussione anche sul modo di chiamare i propri iscritti. Non meraviglia che Letta o Fioroni rimpiangano il combattivo appellativo di amico, ma per coloro che assegnavano le loro speranze al riformismo per risolvere i problemi della nostra repubblica, la discussione appare quanto meno bizzarra. Anche questa stravagante tenzone ci conferma che la catastrofe italiana è sì il berlusconismo, ma anche la pochezza delle forze che si oppongono al Cavaliere rampante ad iniziare dal partito delle primarie.
Non siamo mai stati tra gli entusiasti del nuovo partito riformista, ma dobbiamo ammettere che c’è stato in noi un eccesso di ottimismo. Ciò che abbiamo di fronte è un agglomerato di notabilato politico incapace di stare insieme sulla base di un progetto condiviso ed incapace di mobilitare le forze necessarie ad impedire la deriva che le classi dirigenti stanno imprimendo al Paese. Bersani dichiara che il PD è il partito della Costituzione. Bene, bravo. Il problema è che gli sbreghi alla carta costituzionale sono il filo rosso che da tempo sta uccidendo, nel silenzio o con il consenso di parti consistenti del Paese, la democrazia italiana. Prima ne prendiamo atto, meglio sarà . La democrazia che abbiamo conosciuto nei decenni passati non esiste più. Oggi l’Italia è sgovernata a prescindere dal suo atto fondativo e non per la sola responsabilità  della destra. L’assillo delle modifiche costituzionali dura da trent’anni e ha avuto come primi attori anche uomini e donne del centrosinistra. La legge elettorale che ha prodotto un parlamento di “impiegati” dei partiti, è la fotocopia delle leggi con cui vengono eletti molti consigli regionali anche nelle regioni rosè. Tra premi di maggioranza e listini di porcellini ne sono stati prodotti parecchi anche con il benestare di una parte della sinistra radicale.
Non passa settimana che non vi sia un atto, una dichiarazione, un evento che vada in conflitto con quanto scritto dai costituenti eppure soltanto la CGIL manifesta in difesa della Carta.
Un ultimo esempio di ciò che vogliamo sottolineare? Il referendum dei lavoratori di Pomigliano pone al voto un diritto inalienabile e indisponibile. Il diritto di sciopero previsto dall’articolo 40 della Costituzione. Nel partito democratico, le voci critiche verso la Fiat sono state rare come i goal della nazionale di Lippi. Ciò che ha prevalso è un balbettio confuso, quando non hanno primeggiato gli hurrà  dei tifosi di Bonanni e di Sacconi, quelli degli innamorati del maglioncino di Marchionne, o dei Fiat dipendenti alla Fassino.
Come scrive Valentino Parlato, è meglio perdere combattendo che arrendersi alle preponderanti forze del nemico. Una battaglia si può perdere, ciò che non è ammissibile è presentare una sconfitta come un evento naturale dovuto alle sacre leggi di mercato.
A Pomigliano tutto era contro i lavoratori. Pochissimi hanno segnalato il rischio che l’introduzione del modo di produzione asiatico voluto dalla Fiat può mettere a rischio la stessa tenuta sociale del Paese. Lo scontro è stato durissimo, ma un partito che si proclama il partito della Costituzione non può non denunciare la gravità  dell’attacco ad un diritto come quello allo sciopero. Al di là  del merito della ristrutturazione produttiva prevista dal lodo Marchionne, tra l’altro accettata anche dalla Fiom, il Pd non poteva sottovalutare la destrutturazione del contratto nazionale e il colpo alla Costituzione inferto dall’accordo. L’euforia del riformista Sacconi non era un segnale da sottovalutare.
Tempi difficili quelli che si prospettano. In Umbria a torto o a ragione, è stato un vanto delle classi dirigenti amministrative il livello dei servizi al cittadino. Noi non siamo tra quelli che hanno sottovalutato i risultati della buona amministrazione quando questa è stata visibile. Siamo abbastanza certi che il livello raggiunto dalla spesa pubblica nella nostra regione sia robustamente al di sopra della media nazionale anche per motivi giusti. Non siamo tra quelli che ritengono un toccasana la privatizzazione dei servizi a prescindere dalla gestione dei beni comuni. Non ci guida l’ideologia, ma la concreta verifica dei risultati ottenuti anche in Umbria dalla vendita del patrimonio pubblico o dalle privatizzazioni già  realizzate. Abbiamo tuttavia la certezza che la questione della riconversione della spesa pubblica sia obbligatoria e non solo per i tagli del governo centrale.
L’arte del galleggiamento, in cui in questi anni sono stati maestri insigni molti protagonisti del ceto politico, non sarà  sufficiente a superare i marosi di una crisi che già  incide nei destini di tanta parte delle nuove generazioni. Una svolta sarà  necessaria se si vuole mantenere al centrosinistra l’amministrazione di così tanta parte della cosa pubblica. E’ richiesta una grande capacità  di innovazione nella gestione, ma anche una rinnovata capacità  di rapportarsi alle forze produttive e culturali regionali. Non sono un’enormità , ma ci sono.
La difficoltà  profonda nasce dal fatto che la politica si è consolidata come un mondo a parte che non riesce a mettere a leva i mondi esterni al ceto politico. E’ questo un problema che si è aggravato con il berlusconismo, ma anche per il populismo di troppi leader del centrosinistra. In ripetute stagioni l’Umbria è stata capace nelle fasi di difficoltà , di ricercare strade nuove cercando la collaborazione di intelligenze e culture esterne agli addetti ai lavori della politica. E’ forse illusorio augurarsi che anche in questi tempi difficili le classi dirigenti umbre la smettano di considerare solo il proprio ombelico è ricomincino a guardare alla materialità  delle cose? Come più volte detto, la speranza è l’ultima a morire. Galleggiare nell’esistente o nel già  fatto, diventa sempre più difficile.