da Francesco Mandarini | Ott 24, 2004
Un congresso di partito è sempre un evento importante per la democrazia.
Naturalmente non sempre le assise di partito hanno lo spessore di una svolta
rilevante per la vita interna e per l’immagine esterna di una data formazione
politica. Dipende dalle fasi della democrazia e questa che viviamo è una
pessima fase.
Da un esame delle piattaforme presentate dalle diverse correnti con cui i
Diesse vanno a congresso non sembrano risolti i problemi che attraversano il
maggior raggruppamento della sinistra italiana. Sarebbe ingeneroso non
considerare lo sforzo di elaborazione, ma le idee con cui Fassino vuol essere
riconfermato segretario non hanno la limpidezza necessaria a sciogliere il nodo
che aggroviglia da anni il partito nato dallo scioglimento del PCI. Partito
democratico o partito del socialismo europeo? Siamo ancora a questo nodo.
Nella mozione del segretario diessino rimane irrisolta la questione dell’identità
dei DS.
E’ tanto vero questo che esponenti di primo piano (Ruffolo, Trentin, Reichlin e
molti altri quasi tutti “fassiniani”), hanno sottoscritto un documento che chiede
al congresso la scelta di enfatizzare il fiore del socialismo europeo nel simbolo
diessino. Meno quercia e più rosa. Se non vuole essere una banale operazione
di marketing, bisognerebbe che gli stessi dirigenti facciano un passo avanti nel
dibattito congressuale chiedendo, alla solida maggioranza di Fassino, di
risolvere finalmente la questione che ha afflitto i diesse negli ultimi quindici
anni: quali valori e ideali rappresentare in Italia e in Europa. E principalmente
quale società intendono contribuire a costruire dal punto di vista sociale e
democratico.
Riproporre, come Fassino scrive, il riformismo come discrimine e come ideale
non basta. In Italia tutti si dichiarano riformisti, anche i beluscones che a modo
loro, stanno “riformando” il Paese.
Le parole, specialmente se sono aggettivi e non sostantivi, mutano nel tempo e
nel significato. Riformismo non significa niente se non si precisa che cosa e in
quale direzione si riforma. Affermare che i diesse sono per un riformismo di
tipo socialista, chiarirebbe meglio la differenza tra una sinistra moderna, il
centro democratico e la destra liberista. Ma forse qui sta il punto. Una parte
consistente (?) della maggioranza che si richiama a Fassino ritiene che è
proprio l’orizzonte di obbiettivi socialisti che va abolito? E’ questa una
spiegazione logica per l’ambiguità e il travaglio di questi anni. Il modello di
riformismo che si ha in testa è il blairismo e non la socialdemocrazia
scandinava? Si comprende la cautela. Esplicitare questa scelta (con la guerra
angloamericana in Iraq) qualche problema lo provocherebbe al segretario e alla
sua maggioranza. L’incertezza rimarrà .
L’accordo con la mozione di Fassino sembra essere preponderante.
Le proposte congressuali sono quattro, ma per esseri franchi non sembra che
ci siano grandi possibilità nè per la mozione dell’onorevole Salvi nè per la
mozione ambientalista. E anche per il raggruppamento che un tempo si
chiamava il correntone le prospettive congressuali non sono esaltanti. Si sono
sfilati i pezzi da novanta e le scelte di Cofferrati hanno perso di significativa
influenza nella dinamica nazionale. L’ex segretario della CGIL diventerà un
2
buon sindaco ma le consistenti forze della sinistra che ha attratto nel passato si
vanno sfarinando cercando collocazioni più consone.
Esemplare è ciò che sta succedendo in Umbria. La stagione pre elettorale, per
le regionali e politiche, consiglia a molti una ricollocazione negli schieramenti
interni. Niente di nuovo sotto il sole. Una posizione di minoranza non è facile
da gestire. Anche nel passato nei gruppi dirigenti umbri del PCI, le minoranze
non avevano grandi chance di divenire maggioranza e pochi riuscivano a
tenere posizioni diverse da quelle del centro del partito. Nelle fasi congressuali,
mai nel PCI umbro le idee di Ingrao sono state in maggioranza. Nonostante
l’influenza personale del leader della sinistra del partito nella nostra terra
prevaleva sempre la consonanza con Roma.
A conferma, basta analizzare i congressi di “Svolta” del PCI per verificare
quanto risicati erano i voti sulle tesi alternative a quelle del segretario
nazionale. Pochi del gruppo dirigente umbro votavano assieme a Ingrao. La
leggenda dell’Umbria ingraiana è appunto una favola.
La grandezza del PCI umbro consisteva nel sollecitare l’elezione al parlamento
di Ingrao nel collegio umbro pur non condividendo le sue posizioni politiche.
Altri tempi. Pur approvando la linea che veniva da Roma, i leader locali erano
in grado di gestire il dissenso ed anzi come gruppo dirigente complessivo
rivendicavano una autonomia di elaborazione politica dal centro del partito. E
in molte circostanze, l’Umbria divenne laboratorio di idee e di esperienze
particolarmente innovative nel settore della programmazione e nel rapporto tra
le istituzioni democratiche e i cittadini. “Umbria regione aperta” fu il primo
slogan della prima giunta regionale. Visto con gli occhi di oggi sembra uno
slogan eretico.
Non è casuale che il regionalismo umbro sia stato ravvisato, nel passato, tra
quelli a più alta capacità progettuale e che molte delle concrete realizzazioni
siano state poi “esportate”.
Le stesse esperienze di autogoverno locale hanno contribuito in modo
significativo al progresso della nostra comunità . Anche quando i sindaci o i
presidenti non venivano eletti direttamente, essi erano percepiti, in genere,
come leader popolari e non come professionisti della politica. Il mondo è
cambiato ed inutile stabilire se in meglio o in peggio. In realtà l’impressione è
che il prossimo congresso dei DS rischia di essere soltanto un rito. Molti giochi
sono fatti (federazione dei riformisti, liste uniche, ecc.. ecc.) e i gruppi dirigenti
che si affermeranno non saranno novità scioccanti per nessuno. Prevale il
bisogno di volti noti e di continuità .
Corriere dell’Umbria 24 ottobre 2004
da Francesco Mandarini | Ott 24, 2004
Un congresso di partito è sempre un evento importante per la democrazia.
Naturalmente non sempre le assise di partito hanno lo spessore di una svolta
rilevante per la vita interna e per l’immagine esterna di una data formazione
politica. Dipende dalle fasi della democrazia e questa che viviamo è una
pessima fase.
Da un esame delle piattaforme presentate dalle diverse correnti con cui i
Diesse vanno a congresso non sembrano risolti i problemi che attraversano il
maggior raggruppamento della sinistra italiana. Sarebbe ingeneroso non
considerare lo sforzo di elaborazione, ma le idee con cui Fassino vuol essere
riconfermato segretario non hanno la limpidezza necessaria a sciogliere il nodo
che aggroviglia da anni il partito nato dallo scioglimento del PCI. Partito
democratico o partito del socialismo europeo? Siamo ancora a questo nodo.
Nella mozione del segretario diessino rimane irrisolta la questione dell’identitÃ
dei DS.
E’ tanto vero questo che esponenti di primo piano (Ruffolo, Trentin, Reichlin e
molti altri quasi tutti “fassinianiâ€), hanno sottoscritto un documento che chiede
al congresso la scelta di enfatizzare il fiore del socialismo europeo nel simbolo
diessino. Meno quercia e più rosa. Se non vuole essere una banale operazione
di marketing, bisognerebbe che gli stessi dirigenti facciano un passo avanti nel
dibattito congressuale chiedendo, alla solida maggioranza di Fassino, di
risolvere finalmente la questione che ha afflitto i diesse negli ultimi quindici
anni: quali valori e ideali rappresentare in Italia e in Europa. E principalmente
quale società intendono contribuire a costruire dal punto di vista sociale e
democratico.
Riproporre, come Fassino scrive, il riformismo come discrimine e come ideale
non basta. In Italia tutti si dichiarano riformisti, anche i beluscones che a modo
loro, stanno “riformando†il Paese.
Le parole, specialmente se sono aggettivi e non sostantivi, mutano nel tempo e
nel significato. Riformismo non significa niente se non si precisa che cosa e in
quale direzione si riforma. Affermare che i diesse sono per un riformismo di
tipo socialista, chiarirebbe meglio la differenza tra una sinistra moderna, il
centro democratico e la destra liberista. Ma forse qui sta il punto. Una parte
consistente (?) della maggioranza che si richiama a Fassino ritiene che è
proprio l’orizzonte di obbiettivi socialisti che va abolito? E’ questa una
spiegazione logica per l’ambiguità e il travaglio di questi anni. Il modello di
riformismo che si ha in testa è il blairismo e non la socialdemocrazia
scandinava? Si comprende la cautela. Esplicitare questa scelta (con la guerra
angloamericana in Iraq) qualche problema lo provocherebbe al segretario e alla
sua maggioranza. L’incertezza rimarrà .
L’accordo con la mozione di Fassino sembra essere preponderante.
Le proposte congressuali sono quattro, ma per esseri franchi non sembra che
ci siano grandi possibilità né per la mozione dell’onorevole Salvi né per la
mozione ambientalista. E anche per il raggruppamento che un tempo si
chiamava il correntone le prospettive congressuali non sono esaltanti. Si sono
sfilati i pezzi da novanta e le scelte di Cofferrati hanno perso di significativa
influenza nella dinamica nazionale. L’ex segretario della CGIL diventerà un
2
buon sindaco ma le consistenti forze della sinistra che ha attratto nel passato si
vanno sfarinando cercando collocazioni più consone.
Esemplare è ciò che sta succedendo in Umbria. La stagione pre elettorale, per
le regionali e politiche, consiglia a molti una ricollocazione negli schieramenti
interni. Niente di nuovo sotto il sole. Una posizione di minoranza non è facile
da gestire. Anche nel passato nei gruppi dirigenti umbri del PCI, le minoranze
non avevano grandi chance di divenire maggioranza e pochi riuscivano a
tenere posizioni diverse da quelle del centro del partito. Nelle fasi congressuali,
mai nel PCI umbro le idee di Ingrao sono state in maggioranza. Nonostante
l’influenza personale del leader della sinistra del partito nella nostra terra
prevaleva sempre la consonanza con Roma.
A conferma, basta analizzare i congressi di “Svolta†del PCI per verificare
quanto risicati erano i voti sulle tesi alternative a quelle del segretario
nazionale. Pochi del gruppo dirigente umbro votavano assieme a Ingrao. La
leggenda dell’Umbria ingraiana è appunto una favola.
La grandezza del PCI umbro consisteva nel sollecitare l’elezione al parlamento
di Ingrao nel collegio umbro pur non condividendo le sue posizioni politiche.
Altri tempi. Pur approvando la linea che veniva da Roma, i leader locali erano
in grado di gestire il dissenso ed anzi come gruppo dirigente complessivo
rivendicavano una autonomia di elaborazione politica dal centro del partito. E
in molte circostanze, l’Umbria divenne laboratorio di idee e di esperienze
particolarmente innovative nel settore della programmazione e nel rapporto tra
le istituzioni democratiche e i cittadini. “Umbria regione aperta†fu il primo
slogan della prima giunta regionale. Visto con gli occhi di oggi sembra uno
slogan eretico.
Non è casuale che il regionalismo umbro sia stato ravvisato, nel passato, tra
quelli a più alta capacità progettuale e che molte delle concrete realizzazioni
siano state poi “esportateâ€.
Le stesse esperienze di autogoverno locale hanno contribuito in modo
significativo al progresso della nostra comunità . Anche quando i sindaci o i
presidenti non venivano eletti direttamente, essi erano percepiti, in genere,
come leader popolari e non come professionisti della politica. Il mondo è
cambiato ed inutile stabilire se in meglio o in peggio. In realtà l’impressione è
che il prossimo congresso dei DS rischia di essere soltanto un rito. Molti giochi
sono fatti (federazione dei riformisti, liste uniche, ecc.. ecc.) e i gruppi dirigenti
che si affermeranno non saranno novità scioccanti per nessuno. Prevale il
bisogno di volti noti e di continuità .
Corriere dell’Umbria 24 ottobre 2004
da Francesco Mandarini | Ott 10, 2004
Il personaggio continua a meravigliare. Dopo le lunghe vacanze in
Sardegna, Silvio Berlusconi ha mutato il suo modo di apparire.
Parla poco, nessuna barzelletta in pubblico per accreditare
l’immagine di uno statista lontano dalle miserie della politicapoliticante.
Non è andato ancora negli spogliatoi del Milan a
rimbrottare Ancellotti e non insulta più i propri avversari.
Certo ogni tanto qualche battuta scappa. Il meglio continua a
darlo quando è all’estero. In Libia il nostro dichiara che
Gheddafi è un leader di libertà e non più l’imperatore di una
degli stati canaglia. Apprendiamo che nella lunga lista degli
amici importanti, dopo Bush, Blair e Putin è stato aggiunto anche
il colonnello. Ci sarebbe da dire rispetto alle qualità delle
libertà e della democrazia libica, ma si tratta di un amico e ci
vuole comprensione.
Nel complesso, il cavaliere, è divenuto meno ciarliero e l’astio
contro la sinistra è andato sottotraccia. E’ diventato un buonista
ed è meno giocoso. Perchè? E’ vero che la situazione del Paese
sconsiglia facili entusiasmi e che i miracoli non sempre riescono,
ma la questione sembra più complessa.
Gli esperti dicono che il capo di Forza Italia è stato consigliato
di apparire in televisione il meno possibile e di evitare
l’umorismo da caserma: il troppo struppia, si dice a Perugia.
Il pessimo risultato elettorale del maggio scorso ha indotto gli
spin doctor del leader di Arcore a mutare strategia nella
comunicazione del prodotto. E la cosa sembra funzionare se diversi
segnali e indagini demoscopiche dimostrerebbero che la spinta
positiva per il centrosinistra si è inceppata. E molti, attoniti,
sospettano un nuovo successo politico per la destra berlusconiana
alle prossime elezioni politiche. L’illusione di un’emancipazione
del centro folliniano dallo strapotere della destra populista ha
ballato una sola estate? Così sembra. In queste settimane i
centristi dell’UDC, si adeguano ai voleri riformatori della Lega e
votano tranquillamente la destrutturazione della Carta
Costituzionale e tutto ciò che rientra nei desiderata del capo
liftato.
La nuova strategia di marketing del polo della destra sembra avere
successo anche per la mancanza di una tattica politica credibile
da parte del centrosinistra.
Dopo le vivaci discussioni estive di cui sono stati protagonisti
Rutelli, Prodi, ed altri c’è stato un altro incontro
chiarificatore. Baci e abbracci, avanti verso la federazione, le
primarie, la lista unica per le regionali. Il chiarimento è durato
lo spazio di un mattino.
Rutelli in una lunga intervista chiarisce meglio il suo pensiero e
si ricomincia daccapo. L’elezioni regionali divengono decisive per
la conferma della leadership di Prodi. La federazione tra SDI, DS
e Margherita va bene ma l’autonomia dei partiti non sì tocca. La
lista unica per le regionali? Vedremo caso per caso. Prodi afferma
che alle “riforme” della destra l’Ulivo non deve nemmeno
aggiungere una virgola, ma modificarle alla radice? Rutelli
afferma che bisogna vedere meglio nel merito.
2
Il presidente dei DS, Massimo D’Alema, denuncia una manovra contro
Prodi e l’Ulivo entra in fibrillazioni ulteriori. Perchè succede
tutto questo? Banale sarebbe pensare che tutto sia dovuto a beghe
personali. E’ vero di pavoni e pavoncelle è pieno lo scenario
politico, ma non basta a motivare questa sorta di follia autodistruttrice
del mondo dei riformisti nostrani. C’è qualcosa di
più. La divaricazione è sulle strategie e sulla visione del
presente e del futuro della democrazia italiana. D’Alema lo spiega
chiaramente. Il suo progetto è quello di consolidare una
democrazia molto semplificata dal sistema maggioritario. Una
democrazia di tipo anglosassone in cui ci sia spazio
esclusivamente per un’alternanza al potere tra un polo
conservatore e un polo riformista. Semplice da dire, difficile da
realizzare in un Paese come l’Italia in cui il senso di
appartenenza ad un partito è molto radicato dalla storia. E
d’altra parte questa forma di democrazia non è diffusissima nel
mondo. Gran parte dei Paesi democratici hanno sistemi politici
incentrati su partiti che si alleano per governare e la stabilità
degli esecutivi non è affatto minore di quella assicurata dal
maggioritario, mentre è più forte la rappresentanza di istanze
ideali e politiche. O no?
Uno dei problemi fondamentali dell’Italia è certo il
particolarismo e ciò non riguarda solo la politica.
Non si risolve però la questione cercando di mettere nello stesso
partito forze che hanno sensibilità diverse. E’ immaginabile una
sola organizzazione politica che vede insieme Mastella, Pecoraro
Scanio, Rutelli, D’Alema e Cossutta? Non è miglior cosa cercare di
alleare in un progetto di governo credibile partiti che conservano
una loro identità ? E’ vero che le bandierine di partito e i
“mandarini” irritano molti di chi ha a cuore i destini di un Paese
stremato da pessimi governi e da una classe politica intangibile.
Uno sforzo di aggregazione va certamente operato. Forse se si
evitano forzature organizzative, si otterrebbero migliori
risultati.
Al riguardo, colpisce che l’area riformista ci sta con fatica
provando, mentre il mondo della sinistra più radicale sia
immobilizzato da schemi organizzativi a compartimento stagno senza
che alcuno tenti di mettere insieme le risicate membra.
Anche in Umbria assicurano gli esperti si andrà alla lista unica
dei riformisti. Le ragioni di ciò non sono chiarissime. Ancora
oggi viene in mente la faccia stravolta di Fabrizio Bracco di
fronte ai risultati umbri delle elezioni europee. Per fortuna il
voto per le amministrative per il centrosinistra umbro fu
radicalmente diverso. E’ vero che per un progetto politico di
valenza strategica si può sacrificare qualche voto. In ogni caso è
consigliabile usare qualche cautela ed avere misura nel rischio.
da Francesco Mandarini | Ott 3, 2004
PUGNO DI FERRO IN GUANTO DI VELLUTO
Il Ministro Siniscalco è persona cortese che non usa, come il
Dottor Tremonti, la clava per imporre le sue convinzioni
economiche. E le buone maniere sembrano tornate di moda dopo che
Berlusconi ha smesso di insultare i suoi avversari politici. Le
buone maniere non risolvono però la sostanza dei problemi.
Nel caso della finanziaria votata dal governo per il 2005, la
realtà è questa: si tratta di un provvedimento che inciderà
pesantemente sulle condizioni di vita di gran parte del popolo
italiano. I sacrifici non serviranno affatto a rilanciare
l’economia italiana.
E’ vero che Berlusconi continua a promettere di tagliare le tasse,
ma per intanto chi pagherà per i tagli alla spesa pubblica
contenuti nel provvedimento? Da dove arriveranno i 7 miliardi di
Euro di maggiori entrate? Non saranno forse i ceti medi e la
povera gente quelli colpiti ancora una volta dalle scelte del
governo? Dire il contrario è mistificare.
L’operazione è semplice: si è spostato il fronte del conflitto dal
centro alla periferia. Traduzione. Il ridimensionamento dei
trasferimenti dallo Stato alle amministrazioni locali (regioni,
comuni, province) obbligherà sindaci e presidenti o a tagliare le
spese sociali (sanità , assistenza, ecc.) o ad aumentare la
pressione fiscale locale. Aumenteranno le tariffe dei servizi
pubblici. Con la rivalutazione degli estimi catastali aumenteranno
le tasse sulla casa. Saranno reintrodotti i ticket, aumenterà
l’imposta sulla nettezza urbana, ecc.ecc. Volete il federalismo
fiscale? Ecco un’anticipazione dell’Italia federale in costruzione.
Le organizzazioni sociali, sindacati e confindustria, hanno
espresso con motivazioni diverse, ma non conflittuali, un giudizio
negativo sul provvedimento governativo. Dicono che la situazione
del Paese è tale da richiedere scelte radicalmente diverse da
quelle volute dal governo di centrodestra.
La nostra è ormai da anni una economia bloccata che non trova la
strada per invertire un processo di impoverimento generale delle
famiglie e delle imprese. Il tasso di disoccupazione è superiore
alla media europea, l’economia sommersa ha un’incidenza
formidabile sul PIL. Il sommerso è il motore che copre lo scandalo
dell’endemica evasione fiscale. Argomento questo che non fa più
scandalo e che sembra non interessare più nessuno.
Le indagini statistiche dimostrano che la distribuzione del
reddito in Italia è andata via, via peggiorando per tutti quelli
che vivono del proprio lavoro. Oggi siamo la nazione europea a più
alta concentrazione del reddito e della ricchezza. Non è un bel
record. Le disuguaglianze sociali si sono aggravate mentre la
crisi del welfare ha raggiunto dimensioni tali da incidere
pesantemente sulla qualità di tutti i servizi al cittadino. Ogni
anno aumenta ad esempio la partecipazione dei malati alla spesa
per le proprie cure. A poco a poco l’intervento pubblico si
ridimensiona in tutti i settori senza che le privatizzazioni
stimolino una qualche forma di ripresa economica.
Una pessima situazione che si aggrava anche per la debolezza
programmatica del centrosinistra. Non si sono fatti passi in
1
avanti nel formulare idee e progetti concretamente alternativi
alla linea di politica economica della destra.
Autorevoli rappresentanti dei riformisti continuano a sostenere
che una volta al governo, il centrosinistra dovrà in economia fare
le cose che Berlusconi ha detto di voler fare e non ha fatto.
Esemplare da questo punto di vista il dibattito che “Il
Riformista” ha aperto sia sulle questioni programmatiche sia sulla
classe dirigente espressa dai riformisti.
Sembra di sognare eppure ancora oggi l’argomento al centro della
discussione nell’Ulivo è la forma organizzativa da dare
all’opposizione e se Prodi è o no il leader adatto a vincere la
sfida con Berlusconi.
Sembra prendere forza l’ipotesi di una federazione tra i partiti
del “listone” ma lo sbocco di questa scelta è diversificato
all’interno dei singoli partiti e tra i partiti del centrosinistra.
D’Alema e la maggioranza dei DS sostiene l’esigenza della
formazione di un nuovo partito: il partito dei riformisti. La
minoranza diessina vorrebbe sì un nuovo partito, ma vicino
all’esperienza delle socialdemocrazie europee. Rutelli sogna una
Margherita fulcro di un centro così forte da determinare le
politiche del centrosinistra.
La discussione si trascina ormai da un decennio e i punti risolti
sono pochissimi. Si apre la stagione dei congressi per molti dei
partiti del centrosinistra e forse qualcosa si chiarirà . Certo il
pessimismo ha qualche ragion d’essere visto che i protagonisti
sono gli stessi di sempre e considerando quanto i personalismi
pesino in tutte le vicende politiche. A volte si ha l’impressione
che le lotte intestine al “quartier generale” nascano da antiche
rivalità che poco hanno a che fare con l’interesse del Paese.
Anche se molti si reputano grandi statisti prevale la stizza
dell’uno contro l’altro a prescindere dal merito delle cose.
Comunque qualche barlume di spirito critico rispetto alle scelte
passate comincia ad affiorare anche in leader inossidabili. Più di
uno ormai ritiene sbagliate alcune scelte fondamentali degli anni
trascorsi.
Il federalismo alla Bassanini o la negazione ideologica di ogni
intervento pubblico nella gestione del paese, stanno passando di
moda e si ricomincia a ragionare a partire dal fallimento in tutto
il mondo del modello liberista che tanto ha affascinato i nostri
stagionati eroi.
Corriere dell’Umbria 3 ottobre 2004
da Francesco Mandarini | Ott 3, 2004
Il Ministro Siniscalco è persona cortese che non usa, come il
Dottor Tremonti, la clava per imporre le sue convinzioni
economiche. E le buone maniere sembrano tornate di moda dopo che
Berlusconi ha smesso di insultare i suoi avversari politici. Le
buone maniere non risolvono però la sostanza dei problemi.
Nel caso della finanziaria votata dal governo per il 2005, la
realtà è questa: si tratta di un provvedimento che inciderà
pesantemente sulle condizioni di vita di gran parte del popolo
italiano. I sacrifici non serviranno affatto a rilanciare
l’economia italiana.
E’ vero che Berlusconi continua a promettere di tagliare le tasse,
ma per intanto chi pagherà per i tagli alla spesa pubblica
contenuti nel provvedimento? Da dove arriveranno i 7 miliardi di
Euro di maggiori entrate? Non saranno forse i ceti medi e la
povera gente quelli colpiti ancora una volta dalle scelte del
governo? Dire il contrario è mistificare.
L’operazione è semplice: si è spostato il fronte del conflitto dal
centro alla periferia. Traduzione. Il ridimensionamento dei
trasferimenti dallo Stato alle amministrazioni locali (regioni,
comuni, province) obbligherà sindaci e presidenti o a tagliare le
spese sociali (sanità , assistenza, ecc.) o ad aumentare la
pressione fiscale locale. Aumenteranno le tariffe dei servizi
pubblici. Con la rivalutazione degli estimi catastali aumenteranno
le tasse sulla casa. Saranno reintrodotti i ticket, aumenterà
l’imposta sulla nettezza urbana, ecc.ecc. Volete il federalismo
fiscale? Ecco un’anticipazione dell’Italia federale in costruzione.
Le organizzazioni sociali, sindacati e confindustria, hanno
espresso con motivazioni diverse, ma non conflittuali, un giudizio
negativo sul provvedimento governativo. Dicono che la situazione
del Paese è tale da richiedere scelte radicalmente diverse da
quelle volute dal governo di centrodestra.
La nostra è ormai da anni una economia bloccata che non trova la
strada per invertire un processo di impoverimento generale delle
famiglie e delle imprese. Il tasso di disoccupazione è superiore
alla media europea, l’economia sommersa ha un’incidenza
formidabile sul PIL. Il sommerso è il motore che copre lo scandalo
dell’endemica evasione fiscale. Argomento questo che non fa più
scandalo e che sembra non interessare più nessuno.
Le indagini statistiche dimostrano che la distribuzione del
reddito in Italia è andata via, via peggiorando per tutti quelli
che vivono del proprio lavoro. Oggi siamo la nazione europea a più
alta concentrazione del reddito e della ricchezza. Non è un bel
record. Le disuguaglianze sociali si sono aggravate mentre la
crisi del welfare ha raggiunto dimensioni tali da incidere
pesantemente sulla qualità di tutti i servizi al cittadino. Ogni
anno aumenta ad esempio la partecipazione dei malati alla spesa
per le proprie cure. A poco a poco l’intervento pubblico si
ridimensiona in tutti i settori senza che le privatizzazioni
stimolino una qualche forma di ripresa economica.
Una pessima situazione che si aggrava anche per la debolezza
programmatica del centrosinistra. Non si sono fatti passi in
2
avanti nel formulare idee e progetti concretamente alternativi
alla linea di politica economica della destra.
Autorevoli rappresentanti dei riformisti continuano a sostenere
che una volta al governo, il centrosinistra dovrà in economia fare
le cose che Berlusconi ha detto di voler fare e non ha fatto.
Esemplare da questo punto di vista il dibattito che “Il
Riformista” ha aperto sia sulle questioni programmatiche sia sulla
classe dirigente espressa dai riformisti.
Sembra di sognare eppure ancora oggi l’argomento al centro della
discussione nell’Ulivo è la forma organizzativa da dare
all’opposizione e se Prodi è o no il leader adatto a vincere la
sfida con Berlusconi.
Sembra prendere forza l’ipotesi di una federazione tra i partiti
del “listone” ma lo sbocco di questa scelta è diversificato
all’interno dei singoli partiti e tra i partiti del centrosinistra.
D’Alema e la maggioranza dei DS sostiene l’esigenza della
formazione di un nuovo partito: il partito dei riformisti. La
minoranza diessina vorrebbe sì un nuovo partito, ma vicino
all’esperienza delle socialdemocrazie europee. Rutelli sogna una
Margherita fulcro di un centro così forte da determinare le
politiche del centrosinistra.
La discussione si trascina ormai da un decennio e i punti risolti
sono pochissimi. Si apre la stagione dei congressi per molti dei
partiti del centrosinistra e forse qualcosa si chiarirà . Certo il
pessimismo ha qualche ragion d’essere visto che i protagonisti
sono gli stessi di sempre e considerando quanto i personalismi
pesino in tutte le vicende politiche. A volte si ha l’impressione
che le lotte intestine al “quartier generale” nascano da antiche
rivalità che poco hanno a che fare con l’interesse del Paese.
Anche se molti si reputano grandi statisti prevale la stizza
dell’uno contro l’altro a prescindere dal merito delle cose.
Comunque qualche barlume di spirito critico rispetto alle scelte
passate comincia ad affiorare anche in leader inossidabili. Più di
uno ormai ritiene sbagliate alcune scelte fondamentali degli anni
trascorsi.
Il federalismo alla Bassanini o la negazione ideologica di ogni
intervento pubblico nella gestione del paese, stanno passando di
moda e si ricomincia a ragionare a partire dal fallimento in tutto
il mondo del modello liberista che tanto ha affascinato i nostri
stagionati eroi.
da Francesco Mandarini | Set 26, 2004
La discussione è aspra. Attraversa i partiti e per adesso non sembra avvenga su un terreno di piena consapevolezza della gravità della situazione in cui si trova il rapporto tra addetti ai lavori e senso comune della gente. Ci riferiamo al confronto tra e nei partiti attorno alla questione del costo della politica. Discussione enfatizzata e intrecciata dalle vicende legate allo statuto della Regione e alla legge elettorale regionale. Sullo statuto vale la pena fare una sola annotazione. Esponenti della destra politica umbra discutono con vigore ed alcuni si turbano perchè non capiscono il motivo per cui, in Forza Italia e
non solo, vi sia chi non appoggi fino in fondo uno statuto approvato con il voto decisivo della destra. E che, a detta di Alleanza Nazionale, è caratterizzato dalle idee e dalla cultura del Polo berlusconiano.
Forse qui sta il punto. Nonostante l’impegno profuso in tre anni non si è riusciti a votare uno statuto che fosse segnato non dalla destra o dalla sinistra, ma dalla storia e dalla cultura democratica dell’Umbria. Uno statuto non deve rappresentare una sola ideologia politica, ma l’insieme delle sensibilità culturali ed ideali di una comunità . Da questo punto di vista vale la lezione dei padri costituenti del 1947: proprio all’esplodere della guerra fredda i leader di allora seppero andare oltre gli interessi di parte per costruire una Carta
Costituzionale esemplare per cultura democratica. Soltanto i fascisti votarono contro. Altre stagioni si dirà , ma le divisioni di quel tempo non è che fossero meno radicali di quelle di oggi. Si guardò in quella stagione all’interesse generale del Paese e la democrazia divenne sensibilità di massa.
Veniamo al punto. Costa troppo la politica? La risposta va meditata e va data dopo aver analizzato i processi che si sono attivati negli ultimi dieci, quindici anni nel sistema politico italiano rifuggendo dalla semplificazione qualunquista
montante.
Una cosa è certa. Chi amministra la cosa pubblica ha diritto ad essere pagato per il lavoro che svolge e non è ammissibile che solo i benestanti possano svolgere funzioni pubbliche. Il problema sorge quando i comportamenti concreti del ceto politico sollecitano le spinte al rifiuto della politica come mezzo per governare le comunità . Qualche riflessione sui benefits dei pubblici amministratori e sui livelli stipendiali raggiunti nei vertici burocratici o negli enti parapubblici non sarebbe cosa sbagliata. Non è venuto il tempo di un bilancio veritiero del risultato conseguito dal processo di riforma della pubblica amministrazione degli anni “˜90? Oggi l’amministrare è molto costoso e in termini di efficacia non si sono visti grandi innovazioni. Il mondo della politica
ha un costo di mantenimento di tutto rispetto e la qualità della democrazia non ha trovato grande giovamento dall’aumento marcato di coloro che vivono per e grazie alla politica. Perchè?
La distruzione della Repubblica fondata sui partiti di massa si è concretizzata attraverso vari processi nazionali e internazionali. Sembrerà strano ma la risposta alla crisi di quell’impianto politico è stata univoca sia nella destra che nel centrosinistra. La sinistra comunista divenne una minoranza intelligente, ma ininfluente nei processi di costruzione di un nuovo sistema politico. Di fatto la sinistra radicale ha dovuto subire le scelte degli altri.
I nuovi partiti sostenuti dalla grande stampa e da quasi tutti gli intellettuali del ramo, attraverso referendum e leggi elettorali maggioritarie, hanno cercato di realizzare il sogno di molti nuovisti: i palloncini colorati delle convention americane come immagine di nuova politica senza utopie.
Si è voluto costruire un sistema politico in cui tutto è al servizio del candidato e non delle idee collettivamente discusse e condivise. La politica da fatto
collettivo è diventata una questione di leader da spendere come sindaci, presidenti o parlamentari. Non più una politica costruita quotidianamente con i militanti dei partiti, ma un’organizzazione della politica rivolta ogni cinque anni agli elettori a cui chiedere un mandato in bianco. Annichilito ogni stimolo per il volontariato, la politica si professionalizza. Iniziano le carriere. Non è che nei vecchi partiti non ci fosse anche il carrierismo, figuriamoci. Le ambizioni personali ci sono sempre state, ma oggi manca qualsiasi meccanismo di controllo dal basso. Anzi più sei determinato nello sviluppo della tua carriera più conti nei gruppi dirigenti dei partiti. Il potere lo hai non da una capacità di rapporto di massa, ma dal tuo legame con l’oligarchia. Il discrimine è soltanto la quantità di preferenze che si riesce ad organizzare.
Per i riformisti il modello è stato il NewLabour di Tony Blair, per la destra il plebiscito di antica memoria.
Per anni l’occupazione fondamentale è stata quella di negare, recidere, sterilizzare le radici di provenienza dei vari leader e dei vari movimenti politici. L’antipolitico ha avuto un grande appeal specialmente tra coloro che volevano entrare in politica. Rimane indimenticabile la stagione dei professori scesi in campo per rigenerare la politica e tornati rapidamente a casa senza lasciare grandi rimpianti.
Le strutture di base dei partiti divengono i comitati elettorali e con l’esplodere del berlusconismo la “spesa” per essere eletto da qualche parte, aumenta. Voci autorevoli hanno denunciato il costo, in assoluto e per i singoli candidati, delle recenti campagne elettorali. Non siamo ancora all’America dove una campagna elettorale presidenziale può costare anche oltre quattromila miliardi di vecchie lire. Nel nostro piccolo hanno impressionato le quantità di santini e depliant diffusi nelle nostre case soltanto per l’elezione in qualche circoscrizione di Perugia. E sì, la politica personalizzata costa molto e i palloncini colorati non li regala nessuno. Vanno pagati in molti modi.
Corriere dell’Umbria 26 settembre 2004