AL CAPEZZALE DELL’ECONOMIA

Indagine dopo indagine, vengono in evidenza le difficoltà
dell’economia della nostra regione. Nel nuovo “Annuario economico
dell’Umbria”, presentato recentemente, si conferma il permanere
dei limiti strutturali delle imprese umbre: sottocapitalizzazione
e frantumazione. Aziende del terziario avanzato quantitativamente
ininfluenti non hanno modificato la tradizionale struttura delle
piccole imprese. Le diverse multinazionali presenti in Umbria si
esprimono soltanto come terminali produttivi senza alcuna
autonomia gestionale e quindi esposti a chiusure e
ridimensionamenti. Nessun canta più i meriti del piccolo è bello
proprio perché quel bello non riesce più a produrre ricchezza se
mai ne ha prodotta autonomamente anche nel passato. Non si è
riusciti a costruire “reti” imprenditoriali e i pochi distretti
settoriali non si sono consolidati negli anni ed oggi subiscono
feroci concorrenze nel mercato interno e internazionale.
Questi i caratteri dell’attuale sviluppo umbro. Nonostante anni e
anni di discussioni e di tentativi, a volte intelligenti, di
innovazione nell’intervento pubblico di sostegno allo sviluppo,
siamo anche noi dentro la crisi economica che caratterizza il
paese Italia. Potrebbe essere altrimenti? Nessuno può pensare che
di fronte ad un disastro delle dimensioni di quello che vive la
nostra nazione, una piccola comunità come è la nostra potesse
cavarsela. Bisogna però capire se tutto quello che si è fatto è
andato nella giusta direzione. Se cioè la politica e le
istituzioni hanno fatto il loro mestiere. Mancano, da parte del
sottoscritto, le competenze e manca lo spazio per una analisi
approfondita delle politiche regionali di questi anni. E’ forse
preferibile esemplificare.
A dispetto di un significativo utilizzo di fondi comunitari per la
formazione professionale, non si è riusciti a creare e consolidare
un’occupazione stabile. Ancora oggi la disoccupazione
intellettuale, assieme ad un tasso di attività femminile
inadeguato, caratterizza l’occupazione. Così che gran parte dei
laureati svolgono lavori sottopagati o emigrano dall’Umbria e
molte giovani donne non entrano nemmeno nel mercato del lavoro.
Non ci sarà un problema di come vengono utilizzate le risorse
comunitarie per la formazione? Se i risultati non sono stati
adeguati forse è il caso di introdurre qualche novità e andare un
poco oltre gli interventi di questi anni che notoriamente sono
stati, per così dire, diffusi come una pioggia primaverile. Al
riguardo sarebbe utile una valutazione del sindacato.
La discussione in consiglio regionale attorno al programma di
legislatura ha cercato di individuare i nodi da sciogliere per
innescare una nuova fase dello sviluppo. Al di là della qualità
dei diversi contributi, non sembra che siano maturate nel
centrosinistra idee innovative rispetto alla linea di
concertazione tra le parti sociali e istituzionali che va sotto il
titolo del Patto per lo sviluppo.
Non siamo per la novità per la novità. Non deve scandalizzare la
riproposta di una tesi che ha avuto il consenso di tanti e che ha
prodotto anch’essa il risultato elettorale positivo per la
coalizione guidata dalla Lorenzetti.
Il punto è che non sembra che i diversi “tavoli” istituiti con i
meccanismi del Patto siano stati in grado in questi anni di
attivare processi virtuosi nell’economia regionale. Sarebbe
pretestuoso pretendere già visibili innovazioni, ma almeno
intravedere l’inizio di un percorso potrebbe aiutare a rendere più
forte il meccanismo della concertazione.
L’impressione, sicuramente sbagliata, è quella che attorno alle
non ingenti risorse pubbliche disponibili per gli investimenti
produttivi, si accendono vivaci appetiti. Sono legittimi interessi
territoriali e sociali, ma spesso essi sollecitano risorse senza
mettere in campo proposte convincenti e di mezzi privati
aggiuntivi se ne vedono pochi. Un aggiornamento del pensiero
sindacale al riguardo aiuterebbe a capire meglio che cosa può
sollecitare “tavoli” più operativi.
Con una spesa pubblica per investimenti in caduta libera e con
fondi comunitari insufficienti a soddisfare esigenze diverse, il
Patto per lo sviluppo,al di là della forte passione della
presidente, rischia di tradursi in semplice espressione di volontà
politica.
Per fortuna e per capacità degli amministratori non siamo la
regione più indebitata d’Italia. Bene ha fatto l’assessore al ramo
nel precisare che il ministero del tesoro continua da tre anni a
commettere lo stesso errore imputando alla regione debiti che sono
dello stato. L’assessore ha portato i numeri e non resta, al
governo centrale, che confutarli o cambiare parere.
Meglio i numeri che ricercare nelle valutazioni delle società di
rating la conferma del proprio ben operare. Si potrebbe obbiettare
che sia la gigantesca corporate Enron che la multinazionale
Parmalat, nel loro ultimo anno prima della catastrofe, avevano
avuto i bilanci certificati e il loro rating molto soddisfacente.
Meglio portare i numeri che AAAA.
Corriere dell’Umbria 10 luglio 2005

AL CAPEZZALE DELL’ECONOMIA

Indagine dopo indagine, vengono in evidenza le difficoltà 
dell’economia della nostra regione. Nel nuovo “Annuario economico
dell’Umbria”, presentato recentemente, si conferma il permanere
dei limiti strutturali delle imprese umbre: sottocapitalizzazione
e frantumazione. Aziende del terziario avanzato quantitativamente
ininfluenti non hanno modificato la tradizionale struttura delle
piccole imprese. Le diverse multinazionali presenti in Umbria si
esprimono soltanto come terminali produttivi senza alcuna
autonomia gestionale e quindi esposti a chiusure e
ridimensionamenti. Nessun canta più i meriti del piccolo è bello
proprio perchè quel bello non riesce più a produrre ricchezza se
mai ne ha prodotta autonomamente anche nel passato. Non si è
riusciti a costruire “reti” imprenditoriali e i pochi distretti
settoriali non si sono consolidati negli anni ed oggi subiscono
feroci concorrenze nel mercato interno e internazionale.
Questi i caratteri dell’attuale sviluppo umbro. Nonostante anni e
anni di discussioni e di tentativi, a volte intelligenti, di
innovazione nell’intervento pubblico di sostegno allo sviluppo,
siamo anche noi dentro la crisi economica che caratterizza il
paese Italia. Potrebbe essere altrimenti? Nessuno può pensare che
di fronte ad un disastro delle dimensioni di quello che vive la
nostra nazione, una piccola comunità  come è la nostra potesse
cavarsela. Bisogna però capire se tutto quello che si è fatto è
andato nella giusta direzione. Se cioè la politica e le
istituzioni hanno fatto il loro mestiere. Mancano, da parte del
sottoscritto, le competenze e manca lo spazio per una analisi
approfondita delle politiche regionali di questi anni. E’ forse
preferibile esemplificare.
A dispetto di un significativo utilizzo di fondi comunitari per la
formazione professionale, non si è riusciti a creare e consolidare
un’occupazione stabile. Ancora oggi la disoccupazione
intellettuale, assieme ad un tasso di attività  femminile
inadeguato, caratterizza l’occupazione. Così che gran parte dei
laureati svolgono lavori sottopagati o emigrano dall’Umbria e
molte giovani donne non entrano nemmeno nel mercato del lavoro.
Non ci sarà  un problema di come vengono utilizzate le risorse
comunitarie per la formazione? Se i risultati non sono stati
adeguati forse è il caso di introdurre qualche novità  e andare un
poco oltre gli interventi di questi anni che notoriamente sono
stati, per così dire, diffusi come una pioggia primaverile. Al
riguardo sarebbe utile una valutazione del sindacato.
La discussione in consiglio regionale attorno al programma di
legislatura ha cercato di individuare i nodi da sciogliere per
innescare una nuova fase dello sviluppo. Al di là  della qualità 
dei diversi contributi, non sembra che siano maturate nel
centrosinistra idee innovative rispetto alla linea di
concertazione tra le parti sociali e istituzionali che va sotto il
titolo del Patto per lo sviluppo.
Non siamo per la novità  per la novità . Non deve scandalizzare la
riproposta di una tesi che ha avuto il consenso di tanti e che ha
prodotto anch’essa il risultato elettorale positivo per la
coalizione guidata dalla Lorenzetti.
Il punto è che non sembra che i diversi “tavoli” istituiti con i
meccanismi del Patto siano stati in grado in questi anni di
attivare processi virtuosi nell’economia regionale. Sarebbe
pretestuoso pretendere già  visibili innovazioni, ma almeno
intravedere l’inizio di un percorso potrebbe aiutare a rendere più
forte il meccanismo della concertazione.
L’impressione, sicuramente sbagliata, è quella che attorno alle
non ingenti risorse pubbliche disponibili per gli investimenti
produttivi, si accendono vivaci appetiti. Sono legittimi interessi
territoriali e sociali, ma spesso essi sollecitano risorse senza
mettere in campo proposte convincenti e di mezzi privati
aggiuntivi se ne vedono pochi. Un aggiornamento del pensiero
sindacale al riguardo aiuterebbe a capire meglio che cosa può
sollecitare “tavoli” più operativi.
Con una spesa pubblica per investimenti in caduta libera e con
fondi comunitari insufficienti a soddisfare esigenze diverse, il
Patto per lo sviluppo,al di là  della forte passione della
presidente, rischia di tradursi in semplice espressione di volontà 
politica.
Per fortuna e per capacità  degli amministratori non siamo la
regione più indebitata d’Italia. Bene ha fatto l’assessore al ramo
nel precisare che il ministero del tesoro continua da tre anni a
commettere lo stesso errore imputando alla regione debiti che sono
dello stato. L’assessore ha portato i numeri e non resta, al
governo centrale, che confutarli o cambiare parere.
Meglio i numeri che ricercare nelle valutazioni delle società  di
rating la conferma del proprio ben operare. Si potrebbe obbiettare
che sia la gigantesca corporate Enron che la multinazionale
Parmalat, nel loro ultimo anno prima della catastrofe, avevano
avuto i bilanci certificati e il loro rating molto soddisfacente.
Meglio portare i numeri che AAAA.
Corriere dell’Umbria 10 luglio 2005

LA STAGIONE DELLA MONOCRAZIA

Che l’uomo eserciti un forte carisma a destra, al centro e a
sinistra non c’è dubbio. Nel suo discorso al parlamento europeo
Tony Blair ha dato il meglio di sè ed ha fatto breccia nei cuori
dei parlamentari di tutti i gruppi politici, eccetto quello della
sinistra radicale. Non è un euroscettico, ci rassicura il capo dei
newlabour, ma un euro entusiasta. A conferma ha proposto, come
presidente di turno della Europa comunitaria, una netta strategia
di innovazione per l’Europa. Che sostiene Tony Blair?
La crisi della comunità  è tanto profonda da richiedere un radicale
mutamento nelle scelte economiche e sociali fino ad oggi
prevalenti nella Unione. La ricetta sembra semplice: forti
investimenti in innovazione e modernizzazione delle imprese,
privatizzazione dei servizi pubblici, riduzione del welfare,
riconsiderazione dei settori di spesa ad iniziare da quello delle
sovvenzioni all’ agricoltura, ulteriore (non basta mai)
precarizzazione del lavoro. Non si capisce bene come tutto questo
possa far recuperare un rapporto positivo tra i cittadini e le
istituzioni europee, ma è una linea politica netta che vuol
accelerare l’omologazione al modello di società  prevalente nel
mondo anglosassone ritenuta vincente. Tony Blair ha dalla sua la
forza derivante da un terzo mandato a guidare il governo inglese
ed anche una sorta di fede messianica che di questi tempi non
guasta.
Che l’Europa per riprendersi abbia bisogno di una forte scossa
politica dopo una stagione di immiserimento di idee e progetti è
certo. Le classi dirigenti europee non hanno dato grande prova di
saggezza e lungimiranza ed il congelamento della costituzione ne è
la prova più lampante. La crisi non è soltanto di bilancio, la
difficoltà  è dovuta alla inadeguatezza delle proposte per
contrastare i danni della globalizzazione, ma le risposte
liberiste alla Tony Blair sono la ricetta giusta? Non lo sono
certamente per alcuni decisivi settori. Ad esempio non esiste al
mondo un solo paese dove la sanità  privatizzata funzioni e costi
meno della sanità  pubblica. I sistemi previdenziali all’americana
posti in mano privata sono più costosi e rischiosi di quelli
prevalenti in Europa. O no? I trasporti privatizzati in
Inghilterra sono stati una catastrofe tale, anche dal punto di
vista della sicurezza, da obbligare il governo ad interventi
massicci a sostegno. Dove si è affidata ai privati la gestione
delle acque i costi sono esplosi per gli utenti. E così è stato
per ciò che concerne l’energia elettrica, la California insegna.
Detto questo va aggiunto che la sfida di Blair è cosa molto seria
e va discussa senza paraocchi o pregiudizi riformisti o di pura
conservazione settaria. L’occasione obbligatoria in Italia è data
dall’esigenza per il centrosinistra di darsi un programma di
governo convincente. Non si tratta di elencare una serie di
provvedimenti, ma piuttosto di individuare una griglia di valori e
di ideali, costruendo una identità  forte da cui derivare l’azione
di governo. Non basterà  la denuncia dei disastri economici e
sociali del berlusconismo, la squadra di Prodi sarà  credibile
soltanto se sarà  in grado di prospettare soluzioni radicalmente
diverse da quelle imposte dalla destra italiana ed europea. Il
problema non è di semplice soluzione proprio perchè il rapporto
tra politica e bisogni della gente è pessimo. E cattivissimo è lo
stato della democrazia nel nostro paese. Viviamo la stagione del
potere monocratico. Tra elezioni dirette di sindaci e presidenti,
con staff elefantiaci si è affermato l’impero di manager e
direttori generali tutto facenti, lo spazio per la gestione
collegiale della cosa pubblica non esiste più. Che i comitati di
gestione delle Usl fossero espressione dei partiti è fuori di
dubbio e la cosa poteva disturbare. Ma di chi sono espressione i
direttori generali, gestori assoluti della sanità  pubblica. Sono
manager, ci rassicurano e allora? L’inglesismo risolve tutto? Dove
è scritto che una testa sia meglio di un gruppo di teste? Non si
vedono in giro molti giganti del pensiero in nessun campo. E’
tanto vero questo che anche le grandi corporation sono gestite da
consigli di amministrazioni a cui riferiscono gli amministratori
delegati.
Non è tempo di riflettere su una esperienza di gestione della
sanità  pubblica in sofferenza non soltanto per questione di
carenza di risorse, ma anche di democrazia? Per curare la gente
certo non c’è bisogno di assemblee permanenti, ma non bastano
nemmeno i “contabili”, solitari cavalieri senza macchia e senza
paura.
La democrazia di massa è una risorsa salvaguardata dalla
Costituzione Repubblicana. E’ tempo di invertire la tendenza
all’impoverimento del rapporto tra i cittadini e gli strumenti e i
luoghi della democrazia.
Bisognerà  che qualcuno si ponga il problema di come ricostruire un
tessuto democratico dove far transitare idee e proposte. Da questo
punto di vista non bastano le primarie indette dall’Unione. Al di
là  di ogni considerazione rispetto alla riproposta di un metodo di
scelta del candidato a presidente del consiglio, stupisce non poco
la richiesta di Prodi di ingabbiare il centrosinistra in un
accordo di legislatura in cui scompare l’autonomia del Parlamento
e viene negato un principio costituzionale quale quello che
prevede che un eletto non abbia alcun vincolo di mandato.
Non somiglia tutto ciò a quanto previsto dalla pessima riforma
costituzionale voluta da Berlusconi?
La gravità  della situazione richiede scelte sagge in economia, ma
per risolvere i problemi c’è bisogno anche di una fortissima
partecipazione della gente. Salotti televisivi e interviste non
basteranno. Le monocrazie possono far danni ad ogni livello.
Corriere dell’Umbria 26 giugno 2005

Quei brindisi azzardati sui risultati del listone

Questa volta sarà  finita per davvero la lite sul listone
dell’Ulivo? Va salutato come un gesto intelligente quello compiuto
da Prodi di accantonare la questione della lista personale con chi
ci sta ci sta. Emerge in tutta evidenza la leggerezza di chi aveva
brindato per i risultati del listone dell’Ulivo alle regionali.
Ricordate le euforiche dichiarazioni al riguardo di Bracco e Bocci
sullo storico risultato conseguito?
L’augurio è che non si torni a discutere a settembre a pochi mesi
dalle elezioni politiche di partiti riformisti. Un altro terremoto
del tipo di quello vissuto dal centrosinistra nelle ultime
settimane sarebbe esiziale. Interessano pochissimo le formule
organizzative che il centrosinistra vuol darsi per le prossime
elezioni politiche. I capi e capetti se ci riescono, smettessero
di guardare al proprio ombelico per costruire qualcosa di
accettabile per l’elettorato del centro democratico e, magari se
gli resta il tempo, anche per quello di sinistra. Il danno
procurato dalle divisioni margheritine è stato enorme. E’
convinzione diffusa che per recuperare una qualche credibilità 
saranno necessari molti interventi di Berlusconi nell’arena
politica: solo Lui può salvare il centrosinistra. Soltanto il
ridanciano presidente del consiglio continua a motivare un voto
per sconfiggere il suo governo.
Di fronte alla catastrofe economica, da tutti denunciata, parlando
a Bruxelles,il capo della destra ha definito sciocchezze le
preoccupazioni per la situazione dell’Italia. Con il quaranta per
cento di reddito prodotto dal sommerso di che ci si deve
preoccupare, sostiene il padrone di Forza Italia? Andiamo come
treni, dice. Ed ha ragione il Berlusconi, le sue aziende hanno
segnato nel 2004 il trentotto per cento di incremento degli utili
operativi. Che si vuole di più? Quisquiglie i dati della
recessione italiana e il fatto che per arrivare alla fine del mese
molte famiglie si indebitano sempre di più.
Il guardare al proprio orticello non è caratteristica soltanto di
Berlusconi. E’ gran parte del ceto politico che sembra vivere in
un mondo a parte. Come giustificare altrimenti la meraviglia degli
addetti ai lavori per il risultato del referendum della scorsa
domenica? La cocente sconfitta dei sostenitori del sì ha sollevato
le solite chiacchiere del palazzo. Di rilievo e sbalordente
l’analisi del cardinal Ruini. Il capo della Cei considera maturo
il popolo italiano proprio perchè non ha votato. Che un
rappresentante della gerarchia della chiesa cattolica consideri
positivamente la non partecipazione ad un evento democratico come
il voto, non deve stupire. La furbizia non è esclusività  di
Berlusconi e ognuno ha il suo rapporto con la democrazia.
Al riguardo, è ansiogeno il silenzio agghiacciante della sinistra
rispetto ad un’invasione di campo resa possibile dall’ignavia del
mondo laico, ma anche dalla debolezza dei rappresentanti e dei
valori di una sinistra ormai senza radici che non riesce più a
rappresentare altro che la propria impotenza ideale.
Soltanto Fassino ha timidamente intravisto uno scarto tra il mondo
della politica e il mondo reale.
Negli ultimi dieci anni nessun referendum ha raggiunto il quorum
ed i motivi sono molti. E’ possibile che i meccanismi referendari
debbano essere modificati alla radice, ma il problema sta a monte.
La questione nasce dal deserto politico prodotto dalla
trasformazione della politica da strumento di emancipazione
collettiva a strumento di emancipazione personale del ceto
politico. La personalizzazione della politica è stato un processo
mondiale che ha fatto da contrappunto alla cosi detta crisi delle
ideologie. Nessuna visione provinciale di un problema di degrado
della democrazia che riguarda tutte le democrazie con vari livelli
di decadenza. Non c’è alcuna forzatura nel dire che oggi la
politica è vissuta dal popolo come qualcosa di lontano dalle
problematiche che bisogna affrontare nella quotidianità .
Perchè in una regione come l’Umbria, area laica e storicamente
perplessa di fronte al potere temporale della chiesa, nel giro di
due mesi si è passati da oltre il settanta percento di votanti
alle regionali al 29 per cento del referendum?
La risposta è banalmente semplice. I partiti anche della forte
sinistra umbra sono ormai strumenti capaci di attivarsi soltanto
per la conquista delle preferenze. Non sono scesi in campo ne capi
feudo ne imperatori. Non esisteva il problema del voto di
preferenza e, conseguentemente, la campagna elettorale si è
svolta, anche dalle nostre parti, soltanto nelle promenade
televisive e nelle pagine dei giornali che, notoriamente, la gente
non legge. Esemplare il vuoto della Sala dei Notari di Perugia con
il segretario diessino.
Aver trasformato i partiti in comitati elettorali non è dovuto
alla perfidia di qualcuno. Piuttosto è il risultato di un sistema
politico fondato sulla leaderite e sulla carriera degli addetti ai
lavori. E’ il sistema maggioritario senza partiti di massa il nodo
da sciogliere. Che ci sia un interesse popolare per le promozioni
di questo o quel dirigente è chiedere troppo. Mancando quasi
totalmente di qualsiasi appeal ideale, il centrosinistra in
perpetua divisione, non riesce a mobilitare nessuno quando si
tratta di affrontare tematiche generali quali, in questa
circostanza, il rapporto tra etica religiosa e laicità  dello
Stato. Così ha prevalso nel referendum, la tesi della libera
chiesa in libero staterello. Ha vinto la furbizia alla Rutelli in
perfetta coerenza con il suo stato di convertito sulla via di
Damasco.
La politica e l’amministrazione della cosa pubblica è cosa
difficile. Qualche dubbio al riguardo nelle sue dichiarazioni
programmatiche, Rita Lorenzetti sembra esprimerlo. In generale
nessuno sembra avvertire l’esigenza di recuperare la gente ad un
rapporto positivo con la democrazia.
Corriere dell’Umbria 19 giugno 2005

BARUFFE ROMANE E SILENZIO UMBRO

L’argomento che più ha scioccato le forze politiche in queste
settimane è stato quello dei referendum. In Italia andremo a
votare il 12 e 13 giugno per i quattro referendum sulla
procreazione assistita, in Francia e in Olanda si è già  votato per
quelli sulla costituzione europea. Sui referendum italiani va
sottolineato l’entusiasmo della destra per la scelta astensionista
dell’ex radicale Rutelli. Vano ogni commento. Il competitor di
Berlusconi, da questi sconfitto nel 2001, ci ha ormai abituato
alle svolte e anche alle giravolte.
Sia i francesi che gli olandesi hanno respinto nettamente la carta
firmata a Roma in Campidoglio il 29 ottobre dell’anno scorso.
Indimenticabili le spensieratezze che Berlusconi, novello Carlo
Magno, rivolgeva ai leader di tutti i Paesi europei ed
incancellabile rimane la retorica di tutti gli intervenuti
sull’Europa allargata in costruzione. Dopo il voto francese e
olandese lo smarrimento è all’ordine del giorno. E le ragioni
dello sbigottimento sono più che legittime. Una Europa in crisi è
un danno enorme per tutti.
Negli anni ottanta, su impulso del non dimenticato Jacques Delors,
una commissione d’esperti analizzò il costo della non-Europa.
Ne uscì un rapporto che divenne un best seller conosciuto come
“Rapporto Cecchini”.
Paolo Cecchini, un nostro concittadino, potrebbe spiegare meglio
del sottoscritto quanto la liberalizzazione della circolazione
delle merci e la rimozione di tutte le barriere fisiche e
normative tra i Paesi dell’Unione, abbia aiutato la crescita di
tutte le nazioni europee. Soltanto chiacchierando al caffè dello
sport, come ama fare il ministro Maroni, si può sostenere
l’esigenza di tornare alla lira. Quello della Lega è niente di
altro che un paradossale scaricabarile per i fallimenti del
berlusconismo e del bossismo. Che l’Euro sia stata l’occasione per
aumenti dei prezzi inammissibili è vero. Ma vi sono chiare
responsabilità  di coloro che non hanno esercitato alcun controllo
sulla voracità  di certi settori della distribuzione. E con la lira
ancora in corso sarebbe stata una catastrofe simile a quella dei
primi anni novanta. Con la lira non la Cina, ma l’Argentina,
sarebbe vicina. La moneta unica ha costituito l’unica certezza per
un Paese come il nostro che attraversa una crisi profonda in tutti
i settori.
Il punto non è Europa si o Europa no. Non si può che essere
favorevoli al consolidamento della Comunità . La questione è quale
Europa. E fanno male le classi dirigenti che non si interrogano
sul significato del No alla Carta europea di Francia e Olanda. Il
voto della gente non corrisponde alle aspettative? Ridiscutiamo
con serietà  di valori e di idee condivise per costruire l’Europa o
compriamo, nel libero mercato globalizzato, un nuovo popolo che
ubbidisce?
E’ una grande responsabilità  per governanti e per forze politiche,
scegliere una strada che ridia un senso ad una collettività 
intrisa di paure, ma anche di volontà  positive.
Quel voto negativo non può essere una grande occasione anche per
noi per rifare il punto sullo stato della nostra democrazia e sui
problemi profondi che angosciano i cittadini?
Certo non è questo che sembra volere il centrodestra in Italia. Ma
di che si discute nel centrosinistra? Si continua con una sorta di
romanzo d’appendice in cui non si sa chi è il cattivo e chi è il
buono e che certamente non è stato scritto da Alessandro Dumas.
La certezza della vittoria su un Berlusconi stracotto, ha
ottenebrato le menti di molti. Ancora non ci si rende conto che i
problemi da affrontare richiedono uno straordinario e creativo
impegno di governo e una grande mobilitazione delle coscienze e
delle intelligenze presenti in Italia, ma compresse dalle
difficoltà  e dalla mancanza di un progetto politico diverso da
quello tutto ideologico dominante da venti anni in occidente?
Il ceto politico sta dando una misera rappresentazione della
politica. Ad ogni livello, in un momento particolarmente delicato,
che il voto francese e danese ha ricordato a tutti noi, le classi
dirigenti non sembrano in grado di prospettare soluzioni diverse
da quelle conosciute e che non hanno funzionato.
La mancanza di ogni serio dibattito politico è sotto gli occhi di
tutti. Non ricordo una singola discussione in una assemblea
rappresentativa locale rispetto agli indirizzi e valori contenuti
nella Costituzione Europea nè relativamente alle tematiche
dell’allargamento a venticinque Paesi.
Il consiglio regionale si riunirà  a metà  giugno ma, ne siamo certi,
si parlerà  d’altro. La crisi dell’Europa non sembra affliggere i
nostri valenti amministratori. Eppure per la nostra regione il
rapporto con Bruxelles è stato fondamentale in questi anni. Le
risorse comunitarie hanno svolto un ruolo molto rilevante nei
processi di modernizzazione dell’Umbria. In qualche modo i
dirigenti dei partiti umbri partecipano, come attori secondari,
alla lotta all’ultima dichiarazione di questo o quel leader
nazionale. Anche da noi il centrodestra a raccattare i pezzi dei
partiti sconfitti alle regionali e il centrosinistra annichilito
dalle dispute romane o cretesi. Non è uno spettacolo entusiasmante.
L’Umbria è stata una regione politicamente colta e capace di
intervenire con nettezza nei dibattiti nazionali. Possibile che
non ci sia un leader umbro capace di interferire rispetto alle
incredibile baruffe romane? Per il centrosinistra l’Umbria è terra
di collegi sicuri, c’è quindi la possibilità  di esprimere giudizi
politici da una posizione di libertà  derivante da un consenso
elettorale solido e duraturo.
Stupisce molto questo silenzio politico in un contesto in cui, i
leader nazionali, non sembra abbiano quel carisma e
quell’intelligenza che obbliga all’ubbidir tacendo.
Corriere dell’Umbria 5 giugno 2005